sabato 28 agosto 2010

Quando il dialetto può diventare un Grande dono …

Il bellissimo racconto di Fulvia Signani

(presentazione) di Agide Vandini

Fulvia ci ha toccato il cuore la sera del 12 agosto con la lettura di un racconto di grande impatto che qui pubblico integralmente, per sua gentile concessione.

E’ un magnifico quadretto fra lei e la sua nonna, la Pierina, personaggio di grande notorietà paesana, sempre ricordata a Filo con molto affetto, assieme alla vicenda eroica che la unì alla bandiera rossa datata 1919, quella che volle eroicamente conservare a rischio della vita durante tutta l’epoca fascista.

La bandiera che recava la scritta «Guerra al Regno della Guerra», e di cui riporto una foto di qualche anno fa, è oggi divenuta un cimelio preziosissimo. Proprio di recente ha subito un salutare e fondamentale intervento, operato da quella grande firma nel campo del restauro dei tessuti che è il filese Francesco Pertegato.

E’ un racconto che i paesani radunati davanti alla palestra hanno ascoltato col fiato sospeso, parole da cui traspirano grande amore e rispetto, assieme alla voglia di capire e conoscere fin dalle proprie radici culturali quella meravigliosa generazione di donne e di uomini che ci ha preceduto.

La Pierina, quella sera, ci ha parlato, quasi fosse fisicamente presente e l’abbiamo sentita, in fondo al cuore, la nonna di tutti noi (Agide Vandini).

Un regalo impagabile

di Fulvia Signani

E’ una calda mattina d’agosto e c’è silenzio nell’aria. Coraggio e amore, nonostante tutto, amore. Amore per l’umanità e per la vita, filtrano dal suo sguardo incorniciato da un fazzoletto nero annodato sotto il mento. Sempre, inverno ed estate. Il sorriso è schietto, diretto.

« Sono di un altro secolo, tre prima del novecento …» dice e ricorda l’entusiasmo che tutti vivevano per l’inizio del nuovo secolo. Arrivavano notizie di invenzioni, macchine che non avevano mai visto, una possibilità di vita migliore per tutti, che non osavano nemmeno sognare.

« Non puoi ricordare, nonna, eri troppo piccola …»

« Me lo hanno tanto raccontato, che l’ho vissuto attraverso le loro parole. Era vero entusiasmo, te lo assicuro!», dice.

Ha passato due guerre, anzi - dice - per me sono state quattro. Dalla prima un cugino ed il fratello della sua amica Maria non sono più tornati. La seconda ‘la spagnola’, l’epidemia di febbre che le ha ucciso madre, sorella e nipote. Con un dispiacere, un vuoto, una mancanza, un lutto che sono diventati permanenti. Quindi la seconda guerra mondiale. Distruzioni, fucilazioni, tanta gente morta, la casa bombardata. Poi la decisione di aiutare la Resistenza.

E’ una giovane socialista, incaricata di custodire la bandiera del partito della sezione di Filo, il nostro paese. Rossa, di tessuto pregiato, bordato d’oro, porta una scritta ricamata a mano, ‘guerra al regno della guerra’ . Quando vede che le cose si mettono male, con l’avvento del fascismo, decide di salvare la bandiera. Se la fascia addosso, come un dolce busto, un cilicio segreto, la difesa di un ideale, di un credo, di una passione. La nasconde, via via, in luoghi segreti. Il rischio è tanto.

La convivenza forzata per mesi con tedeschi invasori che pretendono vitto e alloggio («uno voleva ogni mattina tredici uova fresche e se le beveva in un sol sorso», mi racconta) non la trova impaurita. Sostiene il loro sguardo con fierezza, conscia che la scoperta del temibile segreto può darle la morte.

«Tuo nonno, anche se era figlio del campanaro, mi lasciava fare …». Quando apprende per tv che hanno coniato in politica la definizione compromesso storico, mettendo d’accordo democristiani e comunisti, me lo annuncia sorridendo: « Io e tuo nonno lo avevamo fatto prima di loro - dice - bastava chiedere a noi …».

Alfeo, Feo, nato il 1° gennaio 1900, attore alla Filodrammatica ‘Vittorio Alfieri’ del paese, lavorava il ferro e tutti i materiali possibili. Ferrava i cavalli consultando, con fare eccentrico, grossi tomi in latino.

Lei, commerciante di stoffe. Il lavoro le ha consentito di incontrare tante e tanti. Alcuni diventati amiche ed amici. Usa un linguaggio semplice, appropriato, di chi, attento alle persone, si è volentieri contaminato nei modi di dire e di fare. Vende trame antiche, tele prodotte da telai a mano, di fili di canapa robusti, resistenti e ruvidi, che quando sei a letto, ti ci gratti piacevolmente i piedi.

Adulti, anziani e bambini arrivano alla spicciolata, le chiedono aiuto. Hanno caviglie, spalle slogate e dolenti. Si apparta per qualche minuto con loro nel cortile di casa, poi li vedo allontanarsi, ringraziandola.

« Cosa gli hai fatto?», le chiedo.

« Una cosa che mi ha insegnato una signora, una zingara, una notte, sotto i bombardamenti. Mi ha detto ‘Dico a te, come fossi la figlia che mi è morta tra le braccia. E’ un segreto da tramandare solo tra la gente gitana. Dopo di te nessuno saprà’» La zingara poco tempo dopo è stata uccisa a fucilate. Maledettamente troppo scura per passare inosservata.

Da allora lei pratica l’arte della guarigione con senso di dovere, di abnegazione. Non ci lucra: «non funzionerebbe», mi avverte. I guariti sentono, comunque, il bisogno di ringraziarla con prodotti dell’orto, galline, frutta, marmellate che lei accoglie quasi schernendosi, timida. Mangia poi di gusto, assaporando il ringraziamento, a sua volta con gratitudine. Impertinente, insisto per conoscere il segreto della zingara e glielo propongo più volte negli anni. « Morirà con me», la sua ferma risposta, ogni volta.

Ondeggia quando cammina, un lieve dondolio, come nave mossa dalla lieve brezza del vento. Se i dolori peggiorano, si aiuta con un bastone, prodotto da Feo, che, con proverbiale pazienza, ha forgiato anelli di corna di bue, con fori progressivamente crescenti, facendo assumere al sostegno una forma lievemente conica. Oggetto d’arte unico. Impagabile.

« Come stai, vieni che parliamo un po’…», mi dice. E’ una calda mattina d’agosto. Da ieri sono maggiorenne e sono mesi che le preannuncio la richiesta di un regalo speciale.

« Non costa denaro, non si paga …», l’ho rassicurata più volte, con fare volutamente misterioso e lei, sempre più incuriosita ed incredula. Anche ieri ho voluto stare nel vago. La vedevo fremere durante il piccolo raduno famigliare per il festeggiamento. Dagli altri ricevevo regali più o meno voluminosi e quando chiedevano a lei cosa mi avesse donato: «Dice che mi dirà che cosa vuole …», rispondeva, riferendosi a me.

E’ una calda mattina d’agosto e c’è silenzio nell’aria, quello dei momenti in cui tutti sono in vacanza altrove. E’ seduta nella panchina di legno in cortile, mi avvicino a lei con una sedia, per guardarla negli occhi. «Nöna, t a m é da insgnê e’ dialèt …» devi insegnarmi il dialetto, è questo il regalo che ti chiedo.

E’ una storia, questa del precludermi il dialetto che va avanti da tutta la mia vita. Mamma e papà, ma in particolare mamma, a vietare, per troppo amore, troppa protezione, a qualunque parente di rivolgersi a me in dialetto. Lei, come gli altri, a sforzarsi di parlarmi in buon italiano. Tenerezza è il sentimento che ho sempre nutrito nei loro confronti. Grata, davvero grata del loro sforzo, impegno e rispetto. Non ho mai riso degli errori che, ovviamente, ci sono stati e numerosi. Ho temuto che questa necessità di cambiare il registro del comunicare li limitasse nel dirmi. Anzi, senz’altro è stato così e ne ho toccato con mano la deprivazione.

Ho ascoltato negli anni con attenzione quando parlavano tra loro, so che ho già appreso molto, amo quei suoni, quel modo, però manco d’esercizio e di confronto. Che voglio con lei, voglio lei per maestra. « Voglio parlare con te nella tua lingua, sentire i tuoi racconti della bisnonna, della guerra, della pace, delle donne socialiste e coraggiose. Nella tua lingua ...»

« Ci penso», mi dice. L’ho fatta impensierire, sembra stanca. La vedo in autentica tenzone. Disattendere le indicazioni, quasi ordini, di una figlia molto assertiva, o assecondare i desideri contrastanti di una nipote, ora maggiorenne e volitiva? Non deve esserle facile.

La questione dialetto non torna per tutta la giornata. So che non ne parla con sua figlia, mia madre. So che sta pensando.

E’ un’altra calda mattina d’agosto. Sto recandomi in cucina, per la colazione. Mi chiama per nome, mi affaccio alla porta, è ancora a letto, con una delle sue candide camicie da notte. Ripete il mio nome, poi:

« Par piašé, a put šlunghêm la lišès? An sö s’épa frèd o chêld, zìrt mumìnt um pê d’avé frèd. E sẹ ch l’è un dè acsẹ bèl! [1] E’ davvero un bel giorno. Rispondo compiaciuta al suo sorriso. La prima lezione è già iniziata.

Da sinistra, Amilcare Ricci, Afro (Amato) Rossi e Pierina Corelli si tengono fraternamente a braccetto in una foto presumibilmente degli anni ’70. Sono davanti alla storica bandiera della Gioventù Socialista Filese, datata 1919 dove fu ricamata la scritta pacifista «Guerra al Regno della Guerra».

13 Febbraio 2003. L’On. Massimo D’Alema in visita a Filo si sofferma davanti al prezioso cimelio che in quella occasione fu esposto a Villa Vittoria. A sinistra Egidio Checcoli, a destra Luciano Natali.


[1] Traduzione: «Per piacere, puoi allungarmi la liseuse (la leggera mantella o giacchettina femminile da letto). Non so se ho freddo o caldo, in certi momenti mi pare di avere freddo. Eppure è un giorno così bello! »

1 commento:

Anonimo ha detto...

Assolutamente d'accordo con lei. In questo nulla in vi e credo che questa sia un'ottima idea.
E 'vero! Ottima idea, sono d'accordo con lei.