Ricordo del grande Giacomo Bulgarelli
di Agide Vandini (il Filese)
A qualche giorno di distanza dalla sua scomparsa, dischiuso il groppo alla gola inevitabile che coglie un tifoso rossoblu di lungo corso come me, nel leggere e sentire le tante parole di devozione per il nostro Giacomino, è il momento in cui dare spazio ai ricordi più belli, anche personali.
In questo omaggio al «Bulgaro», al nostro Grande Capitano, ho voluto inserire, oltre al mio, il ricordo di altri tifosi, sportivi e cari amici che ben conoscono da tempo la mia passione per i colori rossoblu e la riconoscenza che, come tale, ho sempre sentito di avere per Giacomo Bulgarelli.
Pubblico però qui, soprattutto, la testimonianza più importante, quella sua, quella di Giacomo Bulgarelli in persona, in un articolo da lui firmato circa 15 anni fa, a trent’anni dallo scudetto del ’64.
In quell’articolo, c’è una po’ tutta la storia dell’ultimo scudetto del Bologna, di quei tempi, di quei personaggi, del «dottore» e di Dall’Ara, soprattutto c’è Lui, Giacomo Bulgarelli. Leggendolo, anche a distanza di tempo, oltre ad apprezzarne la bella e semplice prosa, si riesce a calarsi bene nella storia di quello scudetto e di quegli eroi, molto meglio di quanto consentano certe improvvisate ricostruzioni di questi giorni.
Una frase colpisce particolarmente: rappresentavamo una squadra che sfidava il potere. E’, io credo, la chiave di lettura per quanti, nati successivamente, non riescono ancora a comprendere cosa sia stato il caso-doping e neppure il motivo della sua esclusione dalla nazionale ad appena 27 anni.
Tanti credono oggi, visto il declino successivo dei rossoblu, che il Bologna si sia ritrovato per caso o per un’annata di grazia particolare, a disputare quello spareggio, quasi che per l’Inter di Moratti ed Herrera il Bologna non fosse che una mosca fastidiosa che, per sua disgrazia, quell’anno non riuscì a scacciare dal naso, ma la realtà fu ben diversa.
Sono andato a rileggermi una pubblicazione del ’63, ossia dell’anno prima, e vi ho trovato scritto:
[…] per arrivare veramente a un Bologna da scudetto bisogna giungere ai giorni nostri.
«Avessi avuto un portiere – sostiene Dall’Ara – avrei potuto conquistare il titolo lo scorso anno» e lascia intendere che, in fondo, qualche sconfitta si sarebbe potuta evitare se Bernardini non avesse impostato tatticamente la squadra con troppa confidenza. Per la verità non sono pochi gli sportivi che sono grati al direttore tecnico del Bologna per avere preferito il gioco all’ostruzionismo, per avere assicurato lo spettacolo laddove i suoi colleghi si preoccupavano esclusivamente del risultato. Il calcio è fatto anche di queste cose. E’ per questo che Dall’Ara lascia fare a Bernardini. E’ per questo che gli ha «comperato» un portiere «nazionale», Negri. Sa che lo scorso anno, se non si fosse verificato l’incidente a Pascutti, il Bologna sarebbe rimasto in corsa per lo scudetto.
E sa che, infine, questo potrebbe essere l’anno buono. Gli uomini ci sono e si chiamano, oltre a Negri, Janich, Tumburus, Fogli, Bulgarelli, [Haller], Pascutti, Nielsen. Tutta gente che potrebbe far rivivere il «Bologna che tremare il mondo fa».
(Sergio Gabaglio, Bologna F.C. (Piccola Enciclopedia dello Sport n.24), Milano, Carlo Carusi Editore, 1963, pp.62-63)
***
Non si potrà mai dimenticare il Grande, elegante, nostro Giacomino, che si disse allevato da Lelovich e che molti esperti definirono, fin dal debutto, un «piccolo Schiaffino fatto in casa». Imparai ad amarlo prima ancora che sbocciasse come calciatore, se non altro perché si chiamava come il mio fratello gemello, quello che persi, purtroppo, dopo appena pochi attimi di vita.
Giacomo Bulgarelli aveva cinque anni più di me. Aveva debuttato come mediano sinistro, se non ricordo male, e già s’erano scritte intorno a lui cose bellissime, specie dopo le ottime prove fornite nella nazionale olimpica del ’60 guidata da Rocco. Lanciato definitivamente dal Dottor Bernardini, i suoi lampi di classe fecero subito intravvedere una luminosa carriera, seppure interrotti ad un certo punto dalla pedata maligna di Sivori che gli lasciò tanta rabbia e segni terribili nel ginocchio. Rischiò di perdere i mondiali del ’62 in Cile, ma rientrò in tempo, fu convocato, debuttò con la Svizzera ad eliminazione già avvenuta, e fece 2 gol.
Grande Bulgaro. Era di una sapienza calcistica d’alta scuola. Amava Bologna e il Bologna nel modo più naturale, forse come soltanto un figlio può amare la propria madre. E Bologna lo ha sempre ricambiato d’amore e di stima, d’affetto e di onori, perché in lui si rispecchiava, ne riconosceva e ne amava l’essenza, la sapienza, la giovialità, la goliardia innata. La sua «bolognesità» era tangibile, evidente, assieme ad ogni più bella caratteristica della gente della nostra terra.
Chi vedeva giocare Bulgarelli non poteva che restare estasiato dal tocco sopraffino, dalla grinta e dal gusto del gioco, dalle sapienti triangolazioni, dai tiri magistrali, da quel suo modo sublime di guidare la squadra, da un carisma naturale coi compagni che, ad appena vent’anni, faceva già di lui un vero e proprio direttore d’orchestra calcistica.
Lo invocai con tutto il cuore, ben lontani da Bologna e dall’Italia, in occasione di un’amichevole che si giocò nell’estate del '68, in precampionato ad Anversa in Belgio, contro la locale squadra del Beerschot nel cuore delle Fiandre. Io mi trovavo in quella provincia da mesi, all’epoca, per lavoro e non mancai di andarmi a vedere, con entusiasmo, il mio squadrone rossoblu. Era l’anno dell’arrivo in squadra di Gregori, Mujesan e Savoldi, ed ero molto incuriosito. Soprattutto avevo tanta voglia di godermi, per un giorno, la mia squadra, i miei colori, l’orgoglio e la passione della mia terra.
Ero nelle prime fila della tribuna, modesta, ma cheta ed ordinata, praticamente a pochi passi dal bordo campo. Ad un certo punto venne a tirare il fallo laterale, proprio lui, il «Bulgaro», il direttore d’orchestra Giacomino Bulgarelli da Portonovo di Medicina (dove abitò anche mio nonno Pasquale, detto Capitëni) e io, unico italiano credo fra gli spettatori, me lo vidi proprio in faccia, in cerca della palla. Non resistetti alla tentazione. Gli urlai in dialetto:
«Fajla da vdé, Bulgaro, a sti bon da gnit…». Poi mi rimisi zitto, stupito quasi dall’eco delle mie parole, nel silenzio assoluto che pareva avvolgere lo stadio in quel momento.
Rimase sorpreso, il Bulgaro, sorrise alla sua maniera tirando su col naso, scosse appena un po’ la testa e poi tirò per bene il suo fallo laterale. Pensò, certamente, a chi diavolo potesse mai essere il tipo, il romagnolo, venuto a tifare Bologna in quell’angolo di mondo, proprio mentre tutta la tribuna che, nella maniera più assoluta, non aveva capito un’acca del mio dialetto, si girava quasi incollerita verso di me, quasi per vedere chi fosse il marziano appena sbarcato sulla terra.
Avevo gridato a tutti la mia identità, calcistica e regionale, tutto il mio orgoglio rossoblu e il Bulgaro, ne sono sicuro, lo capì e lo approvò.
Addio capitano di tutti noi.
Quello spareggio preparato in spiaggia…
di Giacomo Bulgarelli
(da L’Unità, Sport, di Lunedì 25 aprile 1994, p. 22)
Quella lunga vigilia dello spareggio-scudetto con l’Inter è forse il miglior ricordo della mia carriera di calciatore. Sono passati trent’anni, da allora, ma le immagini di quei giorni sono ancora fresche. Bernardini vinse la partita con una mossa da maestro: la scelta del ritiro. Ci portò al mare,a Fregene, in un albergo che purtroppo non c’è più. Il «dottore» riuscì a rendere distensiva una settimana che, in teoria, sarebbe dovuta essere di clausura. Pochi allenamenti, in un campetto vicino all’albero, oppure, addirittura, in spiaggia: partitelle di pallone e di pallavolo. Lavoravamo in mezzo ai bagnanti, che ci guardavano con simpatia. Facevano il tifo per noi: rappresentavamo una squadra che sfidava il potere. Se pensiamo ai metodi di allenamento di oggi, parlare di partitelle in spiaggia farà ridere, però anche in quella scelta Bernardini si dimostrò un maestro. Avevamo alle spalle un’intera stagione e a Roma era esploso il caldo: allenarci in maniera pesante ci avrebbe sfinito.
Purtroppo, tre giorni prima dello spareggio morì il nostro presidente, Renato Dall’Ara. Fu l’ennesima mazzata, la peggiore, di una stagione tormentata. Alle spalle avevamo quella incredibile vicenda del doping. Ricordo che Bernardini, pochi giorni prima che esplodesse il caso, ci disse: «Qui ci possono capitare cose strane». Eravamo lanciatissimi, vincemmo con il Milan 2-1, a San Siro, escludendo i rossoneri dalla lotta per lo scudetto, e il mercoledì uscì fuori quella storia. Ci tolsero i tre punti in attesa del giudizio sportivo. La vicenda fu«montata» in maniera incredibile. Se davvero i miei compagni avessero preso quella sostanza e quelle dosi sarebbero, sarebbero morti. Erano dosi da cavallo. Il caso-doping ci rese quasi impossibili gli ultimi tre mesi di campionato. In tutti gli stadi, potete immaginare, ci insultavano. Ci gridavano «Drogati», e certe accuse, peraltro assolutamente ingiustificate, facevano male. Ecco, in quei momenti si rivelò determinante la forza di Dall’Ara. Condusse una battaglia appassionata e alla fine quei tre punti ci vennero restituiti. Ora, si capirà, alla vigilia dello spareggio con l’Inter la scomparsa di dall’Ara fu un’altra mazzata terribile. Ci proposero uno scudetto ex-aequo, ma Bernardini rifiutò. Non voleva uno scudetto «sporco». Anche noi eravamo d’accordo. E così fu confermato lo spareggio.
Bernardini in quella settimana di vigilia finse un’assoluta tranquillità. Non parlò mai della partita con l’Inter. Nel tempo libero si giocava a carte, oppure si leggeva, io ricordo che mi ero portato un paio di libri; si facevano lunghe passeggiate al mare, si prendevano i bagni. Haller, da buon tedesco, aveva la pelle arrossata. Sembrava un’aragosta. Un pomeriggio decidemmo di andare al cinema. Il locale era chiuso, ma lo aprirono apposta per noi. Vedemmo un film di Totò: il «dottore» stravedeva per lui. Una settimana senza stress, insomma, in cui Bernardini si dimostrò un grande psicologo, però la mattina della partita si tradì: si presentò vestito impeccabilmente, ma indossava le scarpe da tennis. Glielo facemmo notare, lui ci rimase male,. Ma finì con una gran risata.
Un altro ricordo indimenticabile di quei giorni è il racconto di come Bologna visse quei novanta minuti di spareggio. Luca Goldoni scrisse un articolo straordinario per il Resto del Carlino. Goldoni non ama il calcio, eppure fu affascinato dal clima di Bologna incollata alla radio. Vi farà ridere anche questo, ma quel giorno la televisione trasmise lo spareggio in differita: si temevano disordini. Goldoni girò in bicicletta per le strade deserte e raccontò quegli incredibili novanta minuti di silenzio squarciati dalle urla dopo i due gol di Nielsen e Fogli.
Il 7 giugno, finalmente il dottore parlò della partita. L’esordio di Bernardini fu in romanesco, come faceva quando voleva sdrammatizzare: «Non ve devo dire nulla… e che mo’ ve devo insegnà a giocà…» La sorpresa fu quando ci disse che al, posto di Pascutti, squalificato, giocava Capra. Ci aspettavamo un altro attaccante, Renna. Ma lui disse che sarebbe stata la mossa vincente. Capra avrebbe dovuto marcare l’interista più in forma, Corso. Io avrei controllato Suarez e questo avrebbe consentito a Fogli di avere maggiore libertà. Temevamo l’Inter, aveva appena vinto la Coppa dei Campioni, ma non avevamo paura. Herrera, come al solito, aveva parlato troppo per caricare i suoi e questo ci diede un po’ di rabbia in più. La partita non fu bella, come sempre capita in circostanze così importanti. L’Inter durò solo un tempo: fu stroncata dalla stanchezza e dal caldo. Herrera aveva sbagliato tutto: aveva portato la squadra in ritiro in montagna e il caldo di Roma fu fatale. Ricordo benissimo il gol di Fogli. Volevo tirare in porta quella punizione, ma mentre prendevo la rincorsa decisi di passare la palla a Fogli. E lui segnò. Dopo la partita Bernardini commise l’unico sbaglio. Noi volevamo tornare a casa per stare in mezzo alla gente, lui invece ci costrinse a restare in ritiro perché c’era la Coppa Italia con la Juve. Perdemmo 3-1.
Un «Signor» Fuoriclasse di Orazio Pezzi[1]
Ho giocato molti anni a pallone, e pensavo di cavarmela egregiamente, finché un giorno … L’amico Ghelfo Tamburini di Voltana mi fece venire a prendere da casa nella primavera del 73 o 74 (allora non avevo la patente, né tantomeno la macchina), per rinforzare la loro squadra che doveva affrontare il Bologna nella partita infrasettimanale di allenamento. Era il Bologna di Edmondo Fabbri allenatore, e di Vavassori, Roversi, Janich, Perani, Savoldi, Bulgarelli, Lambrugo, non ricordo gli altri. Alcune cose mi sono rimaste impresse. In un’azione in contropiede Janich mi affrontò; mi fermò solo con la presenza e con lo spostamento d’aria creato dalla sua mole. Dopo un bel dribbling riuscitomi a metà campo, Perani mi rincorse e mi stese. Mi procurò un’estesa abrasione alla coscia sinistra. A quel punto Giacomo lo rimproverò aspramente, senza però usare male parole. Ricordo particolarmente quei due fatti e quelle azioni di gioco, perché, per il resto, me ne stetti in mezzo al campo a godermi Giacomo Bulgarelli. Devo dire che, visto da vicino, era proprio uno spettacolo. Tutta la squadra girava intorno a Lui ed ai richiami a voce di Janich. Giacomo alzava la testa e fiondava i suoi lanci a pelo d’erba con disinvoltura sconcertante. Il pallone fischiava radente e preciso. Ero estasiato, i compagni, al suo cospetto, apparivano di categoria inferiore, molto inferiore. Lui era un Signor Fuoriclasse… Fu un piacere vederlo, ed anche una fortuna, perché, altrimenti, magari, non avrei messo quei puntini iniziali…
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Ho conosciuto da vicino Bulgarelli di Domenico Mongardi
Ho seguito con commozione la diretta dei funerali del povero Giacomino e mi ha colpito la grande partecipazione dei bolognesi al nostro campione. Si vede che la gente ama ancora i simboli positivi, le persone innamorate e fedeli delle proprie identità, disponibili a rinunce economiche pur di non perdere il legame con la proprie tradizioni. Ho conosciuto da vicino Bulgarelli, prima adolescente e poi giovane; veniva spesso a Castel de Rio, il mio paese, in compagnia di un amico trasferitosi a Bologna con la famiglia negli anni ’50. Abbiamo tirato tanti calci al pallone in quel campo dietro il Castello, abbiamo sostenuto nello stesso anno e nello stesso posto (il collegio S. Luigi di Bologna) l’esame di V ginnasio. Ricordo quell’ampio cortile nel quale ci si fermava a commentare l’andamento delle innumerevoli prove scritte e si trepidava per quelle orali. A noi del paese sembrava un sogno che, quel ragazzetto minuto e gentile, col quale avevamo condiviso parte dell’adolescenza, fosse arrivato a giocare nella squadra per la quale si tifava fin da bambini. Quante volte siamo andati al Comunale per vederlo ammucchiati su una vecchia giardinetta come voi sulla Chicona![2] Ci piazzavamo con il bandierone nei primi gradini della curva vicino all’uscita degli spogliatoi, per chiamarlo e salutarlo, e lui sovente si voltava e rispondeva con un sorriso ed un cenno della mano.
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[1] Filese, oggi ravennate, grande amico di gioventù di Agide Vandini, torinista ed amante del calcio vero, eccellente mezzala di fantasia, molto apprezzata in campo dilettantistico (gironi romagnoli), negli anni ’60. In questo blog sono state pubblicate nei mesi scorsi alcune sue belle e toccanti poesie.
[2] La Chicóna fu un’automobile, ormai mitica, dei vecchi tempi filesi. La si poteva noleggiare da «Gidino» (detto anche Tazio). Scorazzò, negli anni ’50, stipata di giovinastri, per tutta la Romagna. Domenico la cita per averla conosciuta attraverso il mio racconto Quando volava la Chicóna, de’ Il Cestello dei ranocchi, Ravenna, Longo, 1998, pp. 46-52.
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