Trovata a Case Selvatiche, è datata all’anno 1612
di Agide Vandini
Sono ormai passati più di due secoli da quando le acque del Po di Primaro scorrevano a ridosso del paese di Filo. Il vecchio fiume (1782) fu spostato verso sud di un paio di chilometri, con una lunga diversione realizzata al fine di raddrizzare e rendere meno pericoloso un fiume ormai interrito. Così sistemato poté accogliere con tranquillità le acque del Reno tanto che, nell’arco di alcuni decenni, il Po Nuovo venne ad avere, anche in questo tratto, il nome del fiume bolognese.
«Reno» però è una denominazione che, come sappiamo, vale soltanto per le carte geografiche. Da queste parti, specie nella parlata dialettale, il fiume è ancora Pö. Per mandare qualcuno a quel paese si dice allegramente «bòtat in Pö…» (buttati in Po) come per invocare la morte:«Am bŏt in Pö…» (mi butto in Po).
Le alte arginature che oggi formano una linea all’orizzonte verso sud sono, senza alcun dubbio: «j éržan d’Pö» (gli argini del Po). Quando, magari nel corso di ragionamenti o discussioni infuocate su temi di poco conto, ci si vuol richiamare ad aspetti più concreti, a quelli del sostentamento quotidiano, s’usa ancora dire «Guêrda pu, che l’aqua d’Pö la ven žo l’istes…» (Guarda poi che l’acqua del Po vien giù ugualmente…). E un tempo si sapeva bene qual’era l’importanza di quelle acque, le sole in grado di azionare le grandi e potenti macine del Molino di Filo, e con ciò soddisfare bisogni elementari come il pane da mettere sotto i denti.
Ai tempi della mia infanzia, le donne andavano ancora con la carriola a «fê la bughê in Pö» (a fare il bucato in Po) e la pericolosità delle antiche piene era ancora ricordata con enfasi da Méto, un uomo di cui ho narrato storie bellissime e che sopportava poco le prepotenze, tanto che usava dire con severità: «i sachéri i è coma l’aqua grosa in Pö. I-n pö durê…» (Gli sgherri sono come l’acqua di piena del Po, non possono durare molto…).
Il fiume dunque fu allontanato a fine ‘700 dalle case di Filo. L’antico alveo di Po morto per qualche decennio funzionò come modesto canale; tramite una chiavica alla Bastia diede acqua ai mulini di Filo fino a quando essi non funzionarono a vapore. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento la golena rimasta fu in gran parte riempita di terra, portata quasi ovunque al livello della sponda ravennate e oggi, fra queste terre e costruzioni, passa un confine provinciale tanto anacronistico quanto intoccabile. Quella linea divide Argenta da Alfonsine, Ferrara da Ravenna, per taluni la Romagna dal Ferrarese.
Dove scorreva il fiume, l’antico Pado fluente, i filesi quasi ovunque ci coltivano gli orti.
Proprio vangando l’orto, a Giuliano Dalle Vacche di Case Selvatiche, è capitato recentemente di raccogliere un’antica moneta e l’ha mostrata con orgoglio all’amico Beniamino Carlotti. Credo che la si possa identificare come un quattrino bolognese del 1612, risalente cioè al papato di Paolo V.
Sull’idenficazione pare non ci siano dubbi, soprattutto confrontandola con altre dello stesso tipo già catalogate dagli esperti, come si può vedere nelle immagini a fianco. E’ una moneta pontificia credo piuttosto comune, seppure coniata alla Zecca di Bologna quattro secoli fa.
Il valore numismatico modesto, tuttavia, non sminuisce certo il valore culturale del ritrovamento. A noi filesi essa ricorda un bel pezzo di storia, un ambiente fluviale ormai scomparso da secoli, ci fa pensare a moli e attracchi, a barche, a chiatte sul pelo dell’acqua, a merci e mercanti, ad una moneta che cade sul fondo, ad una vita intorno a quel fiume che per il mondo d’oggi proprio non esiste più: è sparito anche il suo nome dalla carta geografica.
Per fortuna, io direi, ci ha pensato fin qui il dialetto e la tradizione popolare a tenere in vita tutto questo mondo scomparso, un mondo che tuttavia sa riemergere all’improvviso, magari sulla punta della vanga, mentre si vuol preparare la terra alla semina dei ravanelli.
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