giovedì 1 gennaio 2009

E’ Capodanno…

Detti e tradizioni romagnole di inizio d’anno

di Agide Vandini

(Note tratte dal suo testo Filo la nostra terra, Faenza, Edit, 2004, pp.358-360[1])






Cominciamo questa piccola rassegna dei nostri detti e delle più antiche tradizioni proprio dal giorno di Capodanno, e dall’abitudine, oggi caduta in disuso, dei maschi del paese (i fanciulli in particolare) di andare in visita ad ogni casa. Questo è luogo infatti, per tradizione, presidiato dalle femmine, costrette fra le mura domestiche da una credenza assai maschilista che le vuole apportatrici di sfortuna ovunque entrino la mattina di quel giorno.

Nel tempo antico in cui ci stiamo calando, si augura ai presenti ogni bene per l’anno che va ad incominciare, per averne in cambio qualche soldino, o un biscotto (i zucaren): «Bondè, bon an, bóna furtóna par tot l’an…» (Buon giorno, buon anno, buona fortuna per tutto l’anno).

S’usa anche dire: «Bondè, bon an, bóna furtóna int la stala, int e’ stalet, int la bisaca de’ curpet…» (Buon giorno, buon anno, buona fortuna, nella stalla, nel porcile, nella tasca del corpetto dove si tiene il denaro), e a chi non apre la porta per scarso senso di ospitalità, si può lanciare qualche malaugurio scherzoso: bon dè, bon an, ch’u-v mura la sumara int e’ capan…(buon giorno, buon anno e che vi muoia l’asino nel capanno…).

E’, Capodanno, un giorno speciale, con moltissime tradizioni bene auguranti e ricco di presagi sull’andamento climatico delle stagioni e dei vari mesi dell’anno.

E’ un giorno in cui il cibo ha particolare significato. Bisogna mangiare in abbondanza, specialmente tanta uva apportatrice di denaro (parchè l’an u t’ažuva, e’ prem dl’an magna dl’uva: perché l’anno ti giovi, a Capodanno mangia l’uva), considerato che ciò che si fa il primo giorno, sarà d’esempio e d’augurio per l’intero periodo che ci aspetta.

Cibo sconsigliato è invece la mela (se e’ prem dl’an una méla t’magnaré, sèmpar la goza a e’ nêš t’aré; nenca cun l’istê, la goza a e’ nêš la-n t’pö manchê…: se a Capodanno mangerai una mela, avrai sempre la goccia la naso; anche d’estate, la goccia al naso non ti potrà mancare…).

Quanto ai presagi ed alle previsioni meteorologiche, un modo di ottenerle facilmente consiste nel salare alla sera si San Silvestro una cipolla divisa in dodici spicchi (che rappresentano i mesi dell’anno) e, sulla base del colore che essi mostrano il giorno successivo, si traggono sommarie previsioni del tempo con largo anticipo. Più particolareggiate e sicure sono le calàndar, ricavate dall’osservazione delle condizioni climatiche durante i primi ventiquattro giorni di gennaio, rappresentativi del clima dei mesi dell’anno[2]. La verifica di validità si avrà però in un giorno importantissimo: il 25 gennaio, quello di San Pèval d’i ségn[3].

E’, quello delle feste di inizio d’anno, un periodo di trebbi nelle stalle, ovviamente alla presenza del fularen, vero e proprio venditore di fantasie, con tante belle fiabe dedicate a piccoli e grandi. La serata si svolge in allegria fra giochi di carte, aneddoti, indovinelli, storie tragiche, racconti briganteschi e di luoghi stregati (u s’i véd, u s’ì sént…), tanto che, se la candela si spegne, c’è quasi sempre da morire di paura.

L’Epifania, qui chiamata Pasqueta, chiude il periodo delle festività: sarmon de’ Nadêl, a m’atëch a e’ buchêl, a m’atëch a la mžeta, sarmon dla Pasqueta (Sermone di Natale, m’attacco al boccale, m’attacco alla mezzetta [antico vaso di coccio, misura di mezzo litro], sermone della Pasquetta), nonché: la Pasqueta, toti al fëst int ‘na caseta, la li mét int una casa, la li mola sól par Pasqua; int la casa u j è la bóna, la li móla öna a öna (L’Epifania mette tutte le feste in una cassetta, o meglio in una cassa che aprirà solo a Pasqua; in quella cassa c’è la festa buona, ma le molla una ad una).

E’ la notte dell’arrivo della Befana, la vëcia, coi suoi umili doni per i bambini che l’aspettano ansiosamente. A una certa ora si comincia a dire ai bimbi che è il momento di andare a letto, in modo che la Befana non trovi gente alzata. Al mattino le calze messe premurosamente davanti al camino si ritrovano sformate e ripiene di tutte le golosità del tempo antico: ziž, brustlin e cuciarul (arachidi, semi di zucca e castagne secche) con qualche mandarino e carruba, segno di buon comportamento del bambino; il tutto infilato in cartocci e cartoccini dove fa sempre la comparsa anche un pochino di cenere che ricorda qualche piccola birichinata… Il contenuto della calza viene svuotato poco a poco, di solito da sotto le coperte del lettone dei genitori, i quali, naturalmente, fanno festa e gridano di meraviglia assieme ai loro piccoli.

E’ anche però un giorno di usanze e credenze che risalgono alla notte dei tempi, a miti e tradizioni pre-cristiane. In questa notte i morti si reincarnano e parlano attraverso gli animali (ecco perché: la nöt d’la Pasqueta, e’ scor e’ ciù e la zveta: la notte dell’Epifania parla il gufo e la civetta). Non è per nulla consigliabile parlare con loro, se non si vuole passare per balordi e magari sentirsi dire: te t’cì ön ch’e’ scor sól la nöt dla Pasqueta ( tu sei uno di quelli che parlano soltanto la notte dell’Epifania…). Pare persino che chi ode i discorsi degli animali possa morire improvvisamente e, chissà, può essere che qualcuno per la paura ci abbia proprio lasciato la pelle. Ad ogni modo per evitare ogni pericolo i garzoni abituati a dormire nella stalla, quella notte dormono altrove....

Nel giorno di Pasquetta (detto anche dla Vceta) si effettuano poi, a gruppi, le visite augurali mascherate casa per casa, una tradizione definita andêr in vëcia. Il gruppetto è condotto da un vciön, un uomo travestito da vëcia, che gira per tutto il paese col tradizionale seguito di monelli vocianti, di grande allegria, dispensando scherzi e burla. Si tratta in sostanza, anche per il nostro vciön, del rinnovarsi della «pasquella», ossia di un canto di questua con una richiesta di offerte in cibo e bevande, col quale si portava un tempo in ogni casa l’augurio di abbondanza e prosperità[4].


[1] Il 19° capitolo del volume è interamente dedicato a «La gente, il folclore, il mondo popolare» e segue tutto il ciclo delle stagioni, con la sottolineatura dei temi e delle tipicità locali,

[2] Si veda in questo blog, su questo argomento, l’articolo «Le antiche Calàndar, previsioni meteo fai da te» pubblicato il 29.12.2007. In sostanza, il clima registrato a capodanno vale per il mese di gennaio, quello del giorno 2, per febbraio, e così via fino al 12, che vale per dicembre. Dal 13 in poi si aggiusta a ritroso ogni mese: il 13 corrisponde a dicembre, il 14 a novembre,ecc. fino al giorno 24, corrispondente a gennaio.

[3] In sostanza, se il 25 gennaio è una brutta giornata, tutta la previsione meteorologica perde validità: dal calàndar a n'um cur, se e' dè d’San Pèval l’è bur (delle calàndar non mi curo, se il giorno di San Paolo è buio). Si dice anche no guardê calàndar, né calandren, guêrda che e’ dè d’San Pèval e’ seia sren (non guardare calàndar di qualunque genere, controlla che il giorno di San Paolo sia sereno) oppure in modo molto più colorito ed esplicito: Se e’ dè d’San Pèval l'è scur, ciapa al Calàndar e pu šbattli int e’ cul (se il giorno di San Paolo è buio, prendi le calàndar e sbattitele nel posteriore…). I segni del giorno di San Paolo vanno letti in sostanza così: se c’è il sole significa abbondanza per l'annata, se c’è cattivo tempo, è segno di malattie; se c’è vento è segno di guerra prossima, se c’è nebbia è segno di carestia o moria; se c’è «aria rossa» sarà un anno piovoso, se, infine, è una giornata buia, le indicazioni delle calàndar diventano nulle. Tutto ciò si riassume in parte dalla voce popolare: se e’ dè d’ San Pèval l’è sren, tota la žént la starà ben; se e’ vent e’ tirarà, la guëra la-s farà; se e’ vent e’ tira fôrt e’ sarà una guëra a môrt, s’u j è nëbia par la veja, l’è segn d’mureia. La tradizione climatica per quel giorno pare comunque essere positiva, se è vero che par San Pèval e’ giaz e’ va a ca’ de’ gèval (per San Paolo il ghiaccio se ne va a casa del diavolo).

[4] «I questuanti rappresentano i morti e da questo deriva il loro potere sia di augurare - portare l’abbondanza, sia di negarla…» Cfr. E.Baldini, Alle radici del folklore romagnolo, Ravenna, Longo, 1986, pp.44.

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