Una foto una storia (4)
di Agide Vandini
La foto è stata scattata più di mezzo secolo fa. Risale, all’incirca, al 1955 e alle mitiche sfide sull’aia del Fondo Masi, fra la temibile formazione dello Stalon e quella del “Resto del Mondo”, composta, come si può intuire, da altri ragazzi filesi fra cui chi vi scrive (l’ultimo a destra in piedi). Fra partite, rivincite e partitissime, di queste sfide se ne fecero parecchie, fino a quando, cioè, non si diventò grandicelli e si fu ammessi a gare più importanti ed organizzate, quelle del Campo Sportivo.
Gli avversari che affrontavamo int l’éra de’ Stalon erano agguerritissimi coetanei che facevano capo alle famiglie Pezzi e Montanari, ospitali padroni di casa, col rinforzo dei Bucchi e dei Baldi (i Travarséra), ragazzi che giocavano e s’allenavano spesso gli uni contro gli altri, sui praticelli o sulle carraie alle adiacenze delle loro case contadine.
Le sfide venivano lanciate a scuola, oppure in parrocchia, e si disputavano di solito la domenica pomeriggio, con tanto di seguito rumoroso di curiosi e spettatori. Erano occasioni da non perdere. Il vecchio «campicello» era ormai stato adibito a Monumento dei Caduti, nel campo sportivo ci giocavano i gloriosi «azzurri» filesi, e quando il campo era libero era pur sempre sconsigliabile andarci, col pallone a rischio di sequestro da parte di Mariaz d’Figion, uomo singolare quanto geloso dei suoi prugni rusticani schierati a ridosso di una delle due porte del campo. Proprio dietro ai suoi prugni, ben nascosto, era solito attendere che il pallone finisse sui suoi terreni, per requisirlo e consegnarlo poi direttamente in caserma.
A quei tempi, dunque, prati e palloni disponibili in paese ce n’erano davvero pochi e veniva davvero a fagiolo il fatto che, allo Stalon, ci fosse sempre tutto pronto per noi, compreso un grosso pallone «numero cinque», della dimensione, quindi, solitamente riservata agli adulti.
Non occorrevano preparativi di sorta. Scarpe da calcio per ragazzini ce n’erano pochissime in giro, ed erano quasi sempre di seconda o terza mano. Dal fondo di queste scarpe da zugadór riciclate fuoriuscivano regolarmente le semenze dei tacchetti consumati, semenze e chiodini che bisognava ribattere prima di ogni partita per evitare vesciche da tregenda. Poiché, tuttavia, questi incontri si disputavano sull’aia pavimentata dello Stalon, era logico calzare scarpe comunissime, anzi le più vecchie e maltrattabili che si avevano in casa. Divise da gioco, ovviamente, neanche a parlarne e non era poi il caso di indossare neppure le braghe corte, visto che avrebbero significato, per noi, soltanto sbucciature in serie alle pur coriacee e resistenti ginocchia.
L’entusiamo contagiava tutti appena giunti sul posto; saliva talmente alle stelle da vivere con impazienza persino l’abituale gonfiatura del pallone, operazione rituale e a dir poco interminabile. Il nostro pur pregiato pallone di cuoio (cun la gŏsa) evocante la rotondità dei mondi - come ebbe felicemente a scrivere Gianni Brera - aveva una larga fenditura per l’inserimento della camera d’aria (cambre d’aria) e i lacci di cuoio che la richiudevano andavano sciolti fino a liberare la rosea imboccatura di gomma (e’ picöl). Attraverso quest’ultima, poi, si soffiava l’aria prodotta da una pompa per biciclette (e’ pumpon) azionata da uno di noi.
Occorreva tempo, pazienza e fatica per tendere il cuoio all’inverosimile, dato che, per quanto si legasse strettamente il picöl con un elastico, il pallone si sgonfiava gradualmente durante la gara e non si voleva certo rischiare una seconda operazione tanto lunga. Quando il pallone aveva quasi raggiunto la forma di una pera, veniva il momento di riallacciare l’apertura e di restituire allo stesso una forma rotonda. Era un’impresa pressoché titanica per ragazzini come noi, perciò la si affrontava collettivamente: chi infilava e tirava i lacci di cuoio, chi teneva invece ben stretto il tesoro, l’oracolo che recava, dentro di sé, sogni e divertimento di una domenica pomeriggio.
Si cercava in ogni maniera, data l’importanza della sfida, di fare un accurato lavoro affinché i rimbalzi del pallone fossero meno casuali possibile. Con lo strumento di gioco finalmente disponibile si formava subito una frotta di ragazzi che se lo contendevano correndo per l'aia, ansiosi di tastarlo, provarlo, misurarsi con esso, fino a quando l’ansia della gara non prendeva il sopravvento.
Pochi erano i preliminari. Il più forte di ogni squadra (Alina quindi per noi) decideva i ruoli in campo, i due portieri si sputavano solennemente nelle mani nude, pér e spér per il calcio d’inizio e subito le squadre si affrontavano senza tregua in quell’aia ben ripulita ove, appena poche settimane prima ed a raccolto avvenuto, si era disteso il granoturco. Lo si faceva senza arbitro, senza guardialinee, con le linee laterali stabilite dai cordoli e con le porte segnate dai nostri cappotti. Gli incontri, a quel che ricordo, furono sempre equilibrati, combattuti e corretti, data la presenza di adulti fra gli spettatori.
A tanta distanza di anni, cambiati profondamente abitudini e scenari, di quelle corse spasmodiche dietro un pallone sull’aia rimane un ricordo di sensazioni fortissime: una voglia matta di superarsi, di compiere imprese di cui vantarsi a scuola, di emulare gesta di campioni dello sport che vivevano nella nostra fantasia, appena immaginati, sognati e fino ad allora mai visti, né dal vero, né in una TV a quel tempo ancora sconosciuta.
I nostri eroi ed idoli erano i Pivatelli, i Pilmark, Skoglund o John Hansen rimirati nelle figurine che ci disputavamo ogni giorno davanti alla chiesa al gioco del Zacagn, oppure intravisti al cinema nelle brevi e mirabolanti sequenze di qualche «Settimana Incom».
Oggi ci basta, in fondo, osservare appena la foto per percepire, con immediatezza, epoca ed età dei protagonisti. Par quasi di veder aleggiare, nell’aere di quell’aia, i draghi alati ed i sogni di una generazione sempre in grande fermento, quella nata nell’ultimo dopoguerra, in un’epoca fortemente segnata da ristrettezze economiche come da speranze in un domani migliore, una generazione che, poi, è cresciuta vorticosamente assieme al boom economico del paese.
Eccoli qui, dunque, sotto i nostri occhi ed in una sola significativa immagine, i tempi lontani e le forti emozioni che una vecchia foto ci rassicura di aver davvero vissuto. Non ci resta che scrivere nomi e soprannomi dei fieri giocatori di quella formazione del «Resto del mondo». Da sinistra, accosciati: Leoni Giuliano (Pëcia), Cavallini Maurizio (Nóce), Nanni Gino (Tarapen), Sacrato Mario (Crati), Filippi Silvio (Fabión). In piedi: Leoni Domenico (Bi-Bìo), Brusi Silvano (Tëra Grösa), Assirelli Roberto (Alina), Minghetti Luigi (Furmiga), Foletti Luciano (Luzio), Natali Enrico (Penna Bianca), Vandini Agide (Përri).
(Cliccare sulla foto per vederla ingrandita)
4 commenti:
Riporto, con qualche nota esplicativa, il prezioso commento ricevuto via mail dall'amico Angelo Minguzzi:
" Carissimo Agide,
grazie per avermi riportato con la tua partita di pallone ai ricordi della mia infanzia - eh sì, sono stato piccolo anch'io - allorché nel nostro cortile si radunavano i bambini del vicinato per giocare, anche a pallone.
Pallone è un eufemismo nel nostro caso, perchè quello da professionisti, ossia di cuoio come il vostro, con tanto di lacci, noi non ce lo sognavamo neanche. Devi sapere che a Masiera la festa del Patrono è Sant'Antonio Abate, 17 gennaio; e in quella occasione qualcuno riceveva in regalo un pallone, di quelli di gomma. E per un po' era una pacchia: il pallone rimbalzava, se ti prendevi una pallonata in faccia non ti faceva male. Ma, siccome al centro della facciata della casa era, ed è tuttora, piantato un melograno, entro un mese, a volte anche meno, il pallone finiva contro gli spini dell'albero (cui tendevi la pargoletta mano) e si forava. E fino al "Santantoni" successivo si giocava con quello sgonfio. E a giocarci d'inverno con un pallone di gomma sgonfio è un'impresa!
Delle regole poi mi ricordo quella del "ogni tre corner un rigore" visto che non c'era lo spazio per tirare i corner.
Poi mi ricordo che ogni tanto qualcuno dei più grandi diceva "opsen" e il gol appena fatto veniva annullato. Solo molto più tardi ho collegato quell'esclamazione con "off side" ossia fuorigioco.
C'era un aspetto di profonda giustizia nelle nostre bizzarre regole: siccome la porta non era delimitata in altezza, allora il gol era considerato valido solo se il pallone non era troppo alto rispetto all'altezza del portiere.
Per il resto tutto si svolgeva come da te descritto.
Il campionato veniva poi interrotto in pieno estate (per me l'estate è sempre stato maschile), allorché il nostro cortile/campo da calcio veniva sequestrato per una quindicina di giorni da mio zio per "batterci" i fagioli. Era un rito: accuratamente diserbato con un "razzetto" dal filo rifatto per l'occasione (battuto sull'incudine e affinato con la "pré") e intonacato con una "buaza" di sterco bovino fresco e acqua che poi veniva lasciato asciugare al sole ("in custira"). E fintanto che non si era finito con la "batdura" il cortile era off-limits per biciclette e gioco del pallone.
A t salut
Angelo d Zizaron d Masìra"
Aggiungo poche note di approfondimento su alcuni termini dialettali usati da Angelo:
- La "pré" è la pietra silicea utilizzata per affilare strumenti.
- La "buaza", come si intuisce dal testo indica l'inzaffardatura effettuata con sterco bovino e acqua. E' un termine che a Filo ha anche il significato di mollezza in genere ("Cus èla cla buaza ch't'é adös..."). Credo che un tempo, quando non si buttava via nulla, con la "buaza" si stuccassero anche i vetri delle stalle...
- "In custira", leggo dal Morri, è espressione che sta ad indicare il sole più caldo, quello che un tempo si cercava di catturare anche nella mezza stagione alzando terreni a pendio (ossia rivali o costiere)esposti a mezzogiorno; in tal modo le piante che vi crescevano divenivano più primaticce.
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Agide
vorrei fare una piccola integrazione al termine "custira" . Il dialetto filese arcaico
(ormai le contaminazioni sono infinite), quello cioè parlato dai nostri nonni e genitori
usavano anche un termine pittoresco, ma linguisticamente e foneticamente molto interessante e curioso e cioè
"sprugla" .
Essere in "custira" stava spesso ad indicare il trovarsi forzatamente sotto un sole
cocente "l'è a là che lavora int una custira..." oppure "in cla cà e' fa un chêld... l'è sèmpar
in custira" .
Invece la "sprugla" stava ad indicare quell'angolino esterno di casa, in cui
i tiepidi raggi solari, da autunno inoltrato a primavera riscaldavano le fredde ossa dei
vecchi . "Andê a la sprugla" o "Métas a la sprugla" era quindi una salutare ricarica per
le stanche ossa "de' nunì" , che finalmente per alcune ore abbandonava "l'irôla" per
l'aria aperta, in muta contemplazione dei campi, del cielo e dei propri ricordi.
Benny
La descrizione e' un film vissuto, realissimo, un'immagine irrepetibile!
Che emozione rivedervi tutti.
Ad occhi chiusi, siete tutti in maglia azzurra.
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