Parole e documenti che ci ricordano il «terribile morbo»
di Agide Vandini
Colpì anche in Romagna la terribile pellagra di cui si è persa memoria, eccome, se colpì.
Il termine dialettale «pilëgra» reca ancora con sé, da queste parti, un che di ineluttabile, di irreversibile, di maledetto e doloroso. E’ il ricordo della malattia più umiliante, quella «della fame», o comunque di un’alimentazione poverissima a base, o quasi, di sola polenta.
Sfogliando alcuni registri parrocchiali, per una ricerca genealogica, non ho potuto fare a meno di buttar l’occhio su certe cause di morte dei miei progenitori ed anche di provare un misto di rabbia e pietà, ad esempio, per la perdita prematura di Antonia Vandini di Attilio (cugino del mio trisnonno), figliola 23enne, morta proprio di pellagra a Longastrino nell’anno 1882.
Ancor più toccante un biglietto recapitato al Parroco che ho trovato fra i registri della Chiesa di San Martino in Conselice negli anni in cui, proprio lì nasceva il mio nunì Pasquale Toschi, detto Capitëni.
Riporto qui a fianco (cliccare sull’immagine per ingrandire), le righe pietosamente vergate da un medico, parole che fanno ancora meditare l’uomo, l’italiano, il romagnolo di oggi, nonostante vi traspaia un tono di «normalità», quasi di «prassi solita».
Vi si legge: «Regno d’Italia, Conselice lì 26 Giugno 1874. Dichiaro e certifico io infrascritto che Cantoni Gaetano, di Conselice, settuagenario, ridotto in oggi dalla pellagra ad uno stato compassionevole, abbisogna per 20 giorni di carne e pane onde sostentarsi e per tale modo riaversi in salute. In fede. Negrini Dr. Cesare, medico curante». Sappiamo che causa fondamentale di questo male terribile era la carenza o il mancato assorbimento di vitamine del gruppo B, in particolare di niacina (vitamina PP), o di triptofano, amminoacido necessario per la sua sintesi. Il decorso della malattia si caratterizzava con un andamento ciclico, contrassegnato dalle cosiddette tre «D» che ne indicavano l’evoluzione: Dermatite, Diarrea, Demenza. Compariva, in una prima fase, un tipico eritema desquamativo della pelle che scompariva in autunno, riappariva la primavera successiva in forme più aggravate accompagnato da diarrea e il terzo anno si ripresentava con terribili manifestazioni di deliri, visioni da incubo che, nello stadio estremo, conducevano alla follia.
In quegli anni durissimi, di metà e fine Ottocento, a soffrire della malattia furono ovviamente i braccianti e contadini che si cibavano di granoturco della qualità più scarsa, quella più facilmente attaccabile dallo Sponsorium maidis, un fungo, verderame altamente tossico per l’organismo.
La «pilëgra» fu, in pratica, un avvelenamento da sostanze guaste, mal conservate che si aveva là dove il lavoro era più duro, dove la miseria e la malnutrizione giocavano un ruolo fondamentale, quello di rendere più facile il contagio. Nelle nostre campagne del resto le condizioni di vita erano in genere avvilenti: ambienti malsani, case povere e sovraffollate, famiglie contadine in deplorevole promiscuità con gli animali. Fra le persone più esposte e vulnerabili ovviamente le donne, sempre pronte ad ogni sacrificio per i loro figli. Solo variando l’alimentazione dalla polenta al pane di frumento e passando ad una dieta più proteica si poteva salvare chi veniva colpito dal «terribile morbo».Va da sé che la vista dei malati incuteva pietà e orrore, basti pensare alla dolorosa descrizione, trovata in rete, di Carlo Maravalle nei suoi robusti versi[1].
Furono queste condizioni, disumane e di estrema miseria, a provocare le tante e note manifestazioni di ribellione contadina che scoppiarono e divamparono a più riprese nelle nostre campagne, in tutta la seconda metà dell’Ottocento.
Nelle regioni Venete, fra le più colpite dal flagello della pellagra, si giunse a dire con giusta ragione: «Polenta da formenton / aqua de fosso / lavora ti paron / che mi no posso».
Nella foto: una donna colpita dalla malattia.
[1] Inaridito, sozzo, del color della segale / La pelle cascante a liste, screpolata e brutta,/ Delle funebri rose ambe le mani / Strano il gesto, il parlar, strana la voce / Or disperato traversava siepi, strade, fossati / Or s’ascondea, piangendo, nelle folte aree dei lontani boschi / Come del peccator langue il corpo, Satana afferra e più non abbandona / Il maledetto mal della miseria avea ghermito un infelice / Pazzo per via, per strada s’avvolgea gridando: / “Oh mia Teresa, Oh figli miei salvatevi”/ In uno spettro invisibile m’afferra, / Senza pietate e dal ritroso passo mi forza / Sei tu forse, Oh donna mia, che mi chiami a giacer nella tua fossa / Una pioggia di lacrime incessante, lenta, sente scrosciar qui nelle orecchie / Sono infuocate lacrime di due dannate / Son le mie figliole, han fame / Ed un tozzo non ho per disfamarle.
1 commento:
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