venerdì 3 febbraio 2023

Dietro quei pochi ruderi…

 Il luogo natio del nostro concittadino più illustre

di Agide Vandini

 

Percorrendo la strada provinciale che dal Borgo Maggiore di Filo porta al Borgo Molino, capita a noi tutti di notare sulla destra, in prossimità della località «Livello», un cumulo di rovine invase da alte sterpaglie, ruderi di cui, forse pochi conoscono la storia.

Chiamata dai filesi la Cà ‘d Girardengo (vedremo poi perché…) finché è stata abitata, ovvero fino agli anni ’60 del Novecento, quella casa in località «Ghiarette» fu per anni la residenza del possidente Luigi Farabulini (negli atti annotato talvolta come Farabolini o Farabullini) e quindi il tetto natio di Monsignor David Farabulini, alto prelato pontificio e, per quanto ne sappiamo, il filese più illustre della nostra storia millenaria.

 


Rovine di Casa Farabulini oggi (Foto Vandini, 2023)


Rovine di Casa Farabulini vent'anni fa (Foto Vandini, 2001)

 

Negli Stati delle Anime della Parrocchia di Filo, il padre Luigi, maceratese d’origine, vi compare per la prima volta nell’anno 1825, censito all’età di 34 anni alla Boaria Aleotti. In quello stesso anno egli sposa la 20enne filese Teresa Bendoli che vive con la famiglia in un capanno di proprietà del padre.

Luigi e Teresa vanno a vivere nella casa delle «Ghiarette» a partire dal 1829 [1]. Intanto è già nato il futuro Don Adriano (1828-1900), colui che farà costruire il grande «Palazzone» di Filo a fine secolo. Alle «Ghiarette» nascono poi, in successione, Dativa (1831), indi David (1833), Pietro Paolo (1837), Vittoria (1840) e Marcantonio (1848) [2].

 Si consiglia di ingrandire l’immagine con un clic


Nello Stato della famiglia nell’anno 1853 qui riportato, manca il solo Adriano già ordinato sacerdote, mentre David è annotato come seminarista in Ravenna. Proprio su quest’ultimo va dedicata tutta la nostra attenzione.

Il nostro Parroco dell’epoca, Don Emidio Cobianchi, ne celebrò il Battesimo, come s’usava a quel tempo, nel giorno stesso della nascita, il 10 Luglio 1833.

 Parrocchia di Sant’Agata in Filo – Registro dei Battesimi


 Trascrizione: Die 10 Juli 1833. David filius Aloyisii Farabolini, et Theresie quondam Francisci Bendoli L.C. huiusce Parociae natus hodie hora 14. Italica de mei mandato ab admodo Rev.do Aloysio Querzani Cappell.o huiusce Ecclesiae baptizatus fuit, cui impositum fuit nomen ut supra David. Patrini fuerunt Jacobus Vincenti Emaldi ed Anna quondam Petri Santi omnes ex hac cura. Ita est. Emidio Cobianchi Parochus.

 Traduzione: Il 10 Luglio 1833. David, figlio di Luigi Farabolini e Teresa Bendoli, Legittimi Coniugi di questa Parrocchia, nato oggi alla 14ma ora italica, dal Reverendo Luigi Querzani, cappellano di questa chiesa e da me appositamente incaricato, fu battezzato; ad esso fu imposto come sopra detto il nome di David. Padrini furono Giacomo Vincenzo Emaldi ed Anna del fu Pietro Santi, entrambi di questa Cura. In fede. Emidio Cobianchi Parroco.


          Mons. David Farabulini (1833-1903)

 

 

Vita ed Opere di Monsignor David Farabulini

 Difficile riassumere in poche righe la figura di Monsignor Farabulini (1833-1903) che fu alto prelato Pontificio nella seconda metà del secolo XIX. Egli si distinse come prestigioso insegnante, intellettuale e celebrato critico d’arte; fu conosciuto in mezzo mondo e di lui sono state scritte esaurienti biografie, sia quand’era ancora in vita, sia dopo la morte.

Mi baserò sulle brevi note da me inserite in Filo, la nostra terra[3] e avute a suo tempo da Vanni Geminiani, studioso e cultore del personaggio, note che, integrate e completate in alcuni punti, qui ripropongo [4].

 

Monsignor David Farabulini, erudito, letterato ed illustre prelato

(insegnante, studioso, scrittore ed intellettuale, Filo 1833 – Roma 1903)

 

Questo celebrato ecclesiastico e studioso, formatosi a Ravenna, era nato a Filo il 10 luglio 1833 dove il padre Luigi, originario di Macerata, aveva preso servizio come «Guardia Campestre (presumibilmente con compiti di ordine pubblico) [5].

Stando a quanto ci è stato tramandato dai suoi biografi, ciò era avvenuto dopo che il padre Luigi «[...]visitò per diporto le vicine Romagne, prendendo alla fine domicilio a Ravenna, e più tardi nel Ferrarese, ove scelse a sua dimora il comune di Filo, presso Argenta. Egli si piaceva molto di quel campestre e tranquillo soggiorno, posto sul Po di Primaro e lungi dagli strepiti della città; e solea dire che anche i più umili paeselli del Ferrarese sono, non solo ameni e deliziosi, ma assai rispettabili, [...]» [6]

A Filo David crebbe, visse la sua lieta infanzia; dopo aver ultimato gli studi ginnasiali in Argenta [7], entrò nel seminario ravennate. Tuttavia, per volontà del cardinale Falconieri, arcivescovo di Ravenna e amico del padre, egli completò, a partire dal 1853, la sua formazione ecclesiastica a Roma, nel seminario Pio fondato da Pio IX.  Lì divenne sacerdote, insegnò per un breve periodo nel Collegio di San Pietro in Vincoli, finché fu trasferito al Pontificio Seminario Vaticano ove insegnò «eloquenza» per oltre venticinque anni, amato e stimato dai colleghi e dagli allievi.



 

 

Il Seminario Vaticano e la chiesa di Santa Marta

(G. Vasi, sec. XVIII, da Wikipedia).

 

 








In quegli anni fu discepolo di Monsignor Farabulini anche il piccolo Edgardo Mortara, sottratto alla famiglia ebrea per imporgli un insegnamento cristiano, un ragazzo che fu al centro di un vero e proprio caso politico, suscitando molto sdegno e scalpore.

 

Fu, quella di questo ragazzo, una vicenda certamente emblematica del fanatismo, dell’intolleranza e dello spirito integralista che pervadeva certo clericalismo nella seconda metà dell’800.

Il piccolo ebreo, infatti, che pare fosse stato battezzato in segreto da una domestica di casa, all’età di sei anni era stato strappato alla famiglia Mortara dalla Gendarmeria Pontificia, con la pretesa di assicurargli una educazione cattolica (Bologna, 1858) [8]. Nonostante ogni tentativo della famiglia di riaverlo, il ragazzo divenne pupillo di Pio IX, papa che aveva preso interesse personale nella storia. Furono interessati inutilmente all’epoca persino Napoleone III e la monarchia inglese. Il religioso inquisitore e responsabile del rapimento (tale Pier Feletti) fu perseguito nel 1860, durante il governo provvisorio di Farini, ma l’ormai diciottenne Edgardo Mortara era divenuto a quel punto cattolico convinto. Dopo la presa di Roma del 1870, forse su suggerimento di Pio IX, Edgardo lasciò la città e si recò all’estero, ove fu ordinato prete all'età di ventitré anni. Trascorse poi la sua vita in giro per il mondo cercando di evangelizzare altri ebrei, inclusa la madre ed i propri fratelli. Edgardo Mortara morì quasi novantenne nel 1940 a Liegi, in Belgio, ove s’era ritirato [9].

 

Va da sé che Monsignor Farabulini non ebbe responsabilità personali nella sottrazione del ragazzo. Si ritrovò invece ad esserne l’insegnante e gli fu molto affezionato. Nel 1865 Edgardo, quattordicenne, recitò alla presenza del pontefice una pregevole «Canzone», un componimento poetico dello stesso Farabulini in cui veniva esaltata la figura di Papa Pio IX, un testo che fu dato alle stampe.

 

Oltre alle ottime doti dimostrate nell’insegnamento, Monsignor David Farabulini ebbe grande fama e notorietà per l’amore dedicato alla storia e all’archeologia e, ancor più, per la vasta competenza in campo artistico che lo mise in relazione coi più illustri letterati del periodo. «[...]sentì il Farabulini accendersi potente nel petto la passione dell'arte, l'amore del bello, del buono, del grande e si die' a visitare e ad ammirare i più vetusti monumenti, le più gloriose opere del genio, e rivolse quindi con alto proposito la sua mente agli studi dell'arte e dell'archeologia e in breve die' luminosa esperienza di suo valore nella estetica, com'anche negli studi storici e nell'erudizione» [10].

Scrisse moltissime opere (più di un centinaio) spaziando da argomenti di carattere religioso ad approfondimenti storico - politici, concentrandosi soprattutto sugli studi d’arte, in particolare di pittura, senza trascurare gli spunti letterari e filosofici [11].

Di lui si lodò «lo stile terso, elegante, l’informazione sicura, l’erudizione ampia». Il suo Saggio di nuovi Studi su Raffaello fu tradotto nelle principali lingue europee ed «accolto con favore» dalla critica d’arte. Ebbe per questo riconoscimenti, gratificazioni, onorificenze dai Reali di Inghilterra[12] e di Spagna[13].

Si guadagnò anche la profonda stima di papa Leone XIII, fine latinista che con la sua erudizione classica pare amasse confrontare col Monsignore i versi da lui composti con ispirazione improvvisa[14].

 

Monsignor David morì, settantenne, a Roma il 10 dicembre 1903 e fu sepolto nel cimitero monumentale del Verano a Roma, nella zona del Capitolo.

Gli fu sempre caro il ricordo di Filo, il suo paese, così come la figura del padre che egli ebbe a ricordare affettuosamente in una delle sue opere: «L'egregio uomo [il padre Luigi 1791-1853] costretto per alcuni anni a far professione d'arme sotto Napoleone I, menò di poi in tranquilla pace la vita, e lungi dall'illustre città che gli fu patria, chiuse i suoi giorni in quell'umile paesello, cui tuttavia l'Ariosto per onore nominò due volte nel suo poema»[15].

Tre anni dopo la morte del padre, nel 1856, nella stanza ove aveva abitato in Roma, era stata posta un’epigrafe in onore del giovane David, da parte di un collega e amico, ove venivano tessute le sue lodi con esplicito riferimento alle origini filesi:

 

 

David Farabulini

di Filo nel Ravennate

alunno nel Pontificio Seminario Pio

in filosofia e divinità studiosissimo

nelle lettere soprammondo versato

la latina ed italiana poesia

in guisa coltivò

da lasciar dopo sé

quanti con lui si provarono

ebbe come cosa affatto di cielo

la amicizia

né fu dovere che in questa trasandasse

soave piacevole grave di parole

non saprei qual più

 

 

eletto a vice prefetto

della camerata San Luigi

seppe così cattivarsi gli animi giovanili

da volgere a talento le chiavi

e coll’esempio e colla dolcezza

rendere più efficace l’autorità

perché a quanti abiteranno in questo luogo ove per due anni il Farabulini stanziò

fossero conte le virtù

che l’animo di lui infiorano

 

 

il collega e amico Augusto Romiti D’Osimo Il dì  III agosto MDCCCLVI»[16]

 

 

Gli Eredi delle proprietà Farabulini, dal fratello Antonio ai giorni nostri

 

Con due figli maschi dediti alla vita ecclesiastica (Adriano e David) e un terzo senza eredi (Pietro Paolo), la successione in linea maschile proseguì con Antonio (1848-1903).

Questi, tuttavia, sposata nel 1871 la filese Foschini Domenica (1853-1938) ed avutone in quello stesso anno il figlio Alfredo, aveva deciso di emigrare in Brasile con tutta la famiglia, compresa la madre Teresa Bendoli. Prima di partire, però, la previdente moglie Domenica aveva collocato fra i casanti delle Ghiarette anche i propri genitori, quali custodi della proprietà, in attesa di sapere come andasse a finire l'avventura brasiliana.

Trascorso qualche anno in Sud America, Domenica Foschini tornò infatti in Italia, ma senza il marito Antonio, dal quale si era separata. Tornò a vivere alle Ghiarette ove poi s’accompagnò a certo Zanarini Alessandro detto Sandrone da Ozzano, mugnaio al Molino di Filo[17]. I due, nel 1897 adottarono poi un bimbo di 6 anni, nipote di Sandrone, ovvero Zanarini Amedeo (1891-1960), in seguito conosciuto in paese come Girardengo.

Antonio Farabulini invece, a quanto si sa, s’era ben inserito come bottegaio nella nuova patria, vi aveva ottenuto la cittadinanza brasiliana e lì morì nel 1903. Il figlio Alfredo, sposò colà un'italiana[18] da cui ebbe 5 figli che vissero tutti in Sud America. Egli tuttavia, tornato forse in visita alla madre, finì per morire per malattia nel luogo natio, nel 1905, morte che fu registrata in via Fossetta al Molino di Filo.

Domenica Foschini, già vedova/separata di Antonio Farabulini, perso anche il figlio Alfredo, dovette affezionarsi ancor più a quello adottivo, cioè al nostro Girardengo. In tarda età, nel 1936, perse poi, per cause accidentali, anche il compagno Alessandro[19].

La donna morì 85enne il 14-2-1938, e la casa alle «Ghiarette» fu a quel punto ereditata dal figlio adottivo Amedeo, detto Girardengo. Questi, nel frattempo, aveva sposato l'alfonsinese Martini Pia (1887-1961) avendone, nel 1920, la sfortunata Marcella, figlia psicolabile che, alla morte della madre, finì per essere ricoverata a Ferrara in istituto psichiatrico. Lì è deceduta nel 1988.

Alla morte di Marcella Zanarini la proprietà della casa già cadente e dell’ampio terreno adiacente, è passata alla famiglia di Zanarini Teresa, figlia di un fratello di Amedeo (Girardengo).

 







 Anno 1965. Valma Gennari, mamma di Vanni Geminiani,

 alla casa delle «Ghiarette» (la cà ‘d Girardengo), abbandonata pochi anni prima dai proprietari.

  

°°°

 

P.S.: È un vero peccato che la memoria del Monsignore sia andata perdendosi in paese e che un personaggio di tale caratura non sia debitamente ricordato nella nostra toponomastica.

È comunque una mancanza a cui si può rimediare.

La comunità religiosa filese, avvalendosi anche di queste brevi note biografiche e, soprattutto col sostegno della Curia Arcivescovile di Ravenna, potrebbe farsi avanti nei confronti dell’Amministrazione Comunale argentana e richiedere un’adeguata intitolazione a «Mons. David Farabulini» nel suo paese natio.

Un luogo ragionevolmente disponibile e assai indicato, a parere di chi scrive, potrebbe essere il Piazzale antistante la Chiesa Parrocchiale di Sant’Agata (a.v.).

 



[1] Pare che la casa fosse di vecchia e poco accurata costruzione, ottenuta dalla riunione di tre diverse casette (cfr. Ing. Ercole Marianti, Relazione Estimativa Beni Farabulini, Argenta, 1902, p. 33).

[2] A questi s’aggiungono altri tre figlioletti deceduti poco dopo la nascita, prima dei tre mesi di età.

[3] A. Vandini, op.cit, pp. 309-310.

[4] Si tratta di notizie ricavate da un fascicolo della Galleria Biografica d’Italia dedicato all’alto prelato nel 1894 quand’era ancora in vita. Da tale fascicolo fu tratta una documentata biografia un anno dopo la sua morte (A. VALERI, Cenni della vita e delle opere di Mons. David Farabulini, Roma. Tipografia Forzani, 1904).

[5] A Filo, Luigi Farabulini acquisì in seguito alcune proprietà fondiarie, alcune delle quali dall’amico Giacomo Manzoni di Lugo. Oltre alla casa delle Ghiarette appartennero ai Farabulini alcuni terreni in prossimità dell’attuale piazza Bellini, un fondo a destra Po Vecchio detto Partidona, la «Tenuta Aleotta» nei pressi della Trotta, nonché l’«ex Caserma Carabinieri» e il «Palazzone».

[6] A. Valeri, op.cit., p.11.

[7] In una dedica che egli fece in suo opuscolo (Inni in onore di S. Apollinare primo vescovo di Ravenna volgarizzati dal can. David Farabulini, Roma, Tip. dell’Osservatore Romano, 1863, p. 16) egli ricordò d’aver ricevuto «nella prima giovinezza», per breve tempo, «l’educazione nelle cose della pietà e degli studi» in Argenta presso il Canonico Francesco Liverani (è l’autore, nel 1867, della Storia della miracolosa immagine... della Celletta).

[8] La polizia agiva su ordine della Santa Inquisizione, ordine avallato da papa Pio IX. I rappresentanti della Chiesa riferirono che una cameriera cattolica della famiglia Mortara, la quattordicenne Anna Morisi, aveva battezzato il piccolo Edgardo durante una malattia, ritenendo che, se fosse morto, sarebbe finito nel Limbo. Il battesimo del bimbo lo rendeva quindi cristiano e per le leggi dello Stato pontificio una famiglia ebraica non poteva allevare un cristiano. Le stesse leggi, peraltro, non permettevano ai cristiani di lavorare per gli ebrei, né agli ebrei di lavorare in casa di cristiani. Di qui il preteso diritto alla sottrazione del ragazzo. Il caso, tanto deplorato all’epoca dagli ambienti liberali, è tornato d’attualità negli anni della canonizzazione di Pio IX da parte di Giovanni Paolo II. Fu trattato su «Storia illustrata» da D. Scalise e ripreso in D. Kertzer, Prigioniero del papa re, Milano, Rizzoli, 1996. Ecco comunque un link per chi volesse documentarsi su tutta la spinosa vicenda: https://it.wikipedia.org/wiki/Caso_Edgardo_Mortara 

[9] Steven Spielberg qualche anno fa desistette dal progetto di un film sulla vicenda dal titolo The Kidnapping of Edgardo Mortara.  Analogo progetto, dal titolo La conversione, è tuttavia in corso da parte del regista Marco Bellocchio. È un film di ricostruzione storica, ispirato al rapimento, alla violenza perpetrata verso il bambino e al fanatismo religioso che ne fu alla base.

[10] A. Valeri, op.cit., p.13.

[11] L’elenco delle maggiori opere letterarie di Mons. D. Farabulini, oltre ad un’ampia biografia del personaggio e alcuni estratti di componimenti a lui ispirati, è contenuto in E. Checcoli, Filo della memoria, Prato, Ed. Consumatori, 2002 pp. 159 ss.

[12] «Innanzi al frontespizio [di un libro ricevuto in dono] è posto un foglio stampato in grandi caratteri, sormontato dallo stemma della Regina, con questa epigrafe di dedica: This work – printed by command of – the Queen - is presented by – her Majesty - to Monsignor David Farabulini – 1886» (A. Valeri, op.cit., p.51).

[13] «[...] la graziosa Regina, con decreto del 1890, onorò il Prelato e Professore romano della commenda di Numero del Real Ordine d'Isabella la Cattolica, che è stimata come una delle più alte onorificenze di Spagna. [...] egli frequentava altresì, per invito speciale, l'Ambasciata spagnuola nei solenni ricevimenti d'uso. Parecchi professori e letterati di Spagna hanno con esso lui tenuto amichevole aderenza. L'illustre cav. Giovanni Quirós De Los Rios, professore dell'Ateneo di Madrid, ai 28 di febbraio 1887, scriveva: «Al insigne poeta latino, cantor de las glorias de mi patria, Excmo Se. D. David Farabulini, por quien renace en Roma con todos sus encantes la Musa de Ovidio, de Propercio y Tibulo» (Ibid. p.56).

[14] Cfr. E. Tramontani, Ripercorriamo la storia di Don David Farabulini, un nome che ha reso onore al Clero ravennate, «Risveglio Duemila», Settimanale Cattolico d’Informazione dell’Archidiocesi di Ravenna-Cervia, 31 gennaio 2004, n. 4 pp. 6-7.

[15] D. Farabulini, Sermoni ed inni antichi in onore di S. Apollinare Apostolo dell'Emilia, volgarizzati e messi in pubblico in occasione del suo XVIII Centenario, Roma, 1874. Le citazioni di Filo e della sua Riviera da parte dell’Ariosto furono tuttavia tre ed in tre poemi diversi.

[16] A. Valeri, op.cit., p.18.

[17] Nel cimitero di Filo c’è ancora la vecchia tomba di Zanarini Alessandro detto Sandrone (Ozzano 1861, Filo 1936). A quanto si racconta, Alessandro era un signore elegante che sosteneva d’essere figlio [illegittimo] del conte, generale, Colloredo Mels (nobile famiglia friulana di antichissima origine).

[18] Residente a Quiriri nello Stato di Santa Catarina.

[19] All’Anagrafe Comunale di Argenta risulta morto il 22 giugno 1936 «per frattura del cranio da caduta».

martedì 24 gennaio 2023

L’antica «Strada della Chiesa»

 

Il centro di Filo dall’Unità d’Italia ad oggi - 3 -

di Agide Vandini

  

Cartolina viaggiata 1916 (Fronte) - Collezione Maurizio Gamberini, Argenta

 

Vista odierna dal crocevia di Filo Dicembre 2022

 

Per osservare i cambiamenti intervenuti in questa parte del paese possiamo servirci di una rarissima cartolina d’epoca di cui ottenni, tempo fa dal collezionista, la disponibilità alla pubblicazione, citandone rigorosamente la provenienza. Si tratta di una cartolina “viaggiata”, spedita da Filo il 26 giugno 1916 e indirizzata al Dottor Carlo Tosello di Fusignano, con tanto di timbri postali di quei giorni. Nella facciata posteriore della cartolina, si leggono le parole: «Unitamente al babbo, mandiamo i più sentiti ringraziamenti e saluti, Edmea e famiglia».

Ovviamente l’interesse di noi filesi si concentra sull’immagine della facciata, ove compare un nitido scorcio del paese, fotografato fra il ‘12 ed il ‘16 del vecchio secolo, verosimilmente dall’edificio posto sull’incrocio stradale, ovvero da una delle finestre della vecchia Caserma (v. foto nella Parte Seconda), la Stazione dei Carabinieri che, come sappiamo, vi si era stabilita una quindicina di anni prima, sul finire dell’Ottocento [http://filese.blogspot.com/2022/12/le-tre-caserme-dei-carabinieri-filo.html ] .

Sulla base della nitida immagine sono in grado di integrare quanto scrissi tempo addietro, in questo stesso blog, basandomi sulla fruizione soltanto parziale della cartolina.

La foto ritrae in sostanza, nella «Via Chiesa», la situazione della planimetria del 1906.

Va da sé che confrontato allo scenario di questi giorni, anche questo scorcio di paese appare stravolto, soprattutto - è bene ricordarlo - a causa delle distruzioni belliche, ma anche dell’abbattimento, a cavallo del 1930, della chiesa Cinquecentesca e del suo campanile, rimpiazzati dal solo chiesone attuale.

Ben pochi dunque sono i punti in comune fra le immagini di ieri e di quelle oggi. Uno di questi è la diritta strada che scende in direzione di Bando (all’epoca «Via Chiesa», fino al bivio fra la «Strada dei Dossi» e la «Via Oca-Pisana»), l’altro è l’unica abitazione sopravvissuta ai bombardamenti alleati, ovvero casa Minguzzi (la cà dla Mingóna [1]).


 

 

 

 

14 Aprile 1945 – Nel fermo immagine del filmato Alleato, i soldati inglesi nel Crocevia di Filo in prossimità delle «scuole vecchie». Sullo sfondo la «Cà dla Mingóna», visibilmente danneggiata, unica abitazione della «Via Chiesa» rimasta in piedi

 

   

Il tracciato della strada è rimasto lo stesso dal crocevia all’abitazione del Parroco, ma ad inizio Novecento, la sede stradale appariva più larga dell’attuale, giacché affiancata da una larga striscia di suolo pubblico che, separato da solidi paracarri, lambiva gli edifici, dall’incrocio e dalla cà dla Nuziadina (casa di Bosi Annunziata) fino alla chiesa.

 

Al scôl vëci [Le scuole vecchie]

Sulla sinistra della cartolina, ove ora ha sede l’Ufficio Postale, s’intravvede un lato delle cosiddette «scuole vecchie», poi bombardate ed abbattute nel dopoguerra, quando, in quello stesso luogo fu eretta, l’attuale Casa Comunale (ex Casa del Popolo).

Qui ci soffermiamo per alcune considerazioni intorno al vecchio e perduto edificio. Sappiamo con certezza che esso ospitò le scuole pubbliche a partire dagli anni ’70 dell’Ottocento, scuole poi considerate «vecchie» nell’anteguerra per distinguerle da quelle «nuove» costruite a cavallo del Novecento fra il crocevia e la chiesa; di queste ultime, nella cartolina, si notano le due ampie scalinate[2].

Il luogo e l’edificio delle «scuole vecchie» fu, negli anni anteriori all’Unità d’Italia, sede del Comune di Filo e «comunali e pubblici» erano perciò anche i terreni ad esso adiacenti, oggi adibiti a parcheggio e Monumento ai Caduti.

 



Le «scuole vecchie viste», viste da ovest, in una foto gruppo familiare degli anni ’30.

 



Le stesse scuole bombardate in un fermo immagine del filmato girato dalle forze Alleate il 14 aprile 1945, giorno della Liberazione di Filo

La corrispondenza «Scuole vecchie» - «Antica Podesteria» viene confermata dallo «Stato delle Anime dell’anno 1879» ove il nostro Parroco annotò:

 


La destinazione d’origine dell’edificio, quale sede del nostro Comune (soppresso appena 20 anni prima, il 27.12.1859, ma riclassificato come «appodiato» nel 1830) è attestata dal fatto che quello stesso luogo era stato fino ad allora annotato, in quei registri, come «Podesteria», oppure come «Casa Comunale», di proprietà del Comune di Filo. Fu in quei locali, quindi, che il 30 aprile 1849 fu approvata l’adesione alla Repubblica Romana[3].

Sappiamo, sempre dagli stessi registri, che, dopo il ridimensionamento e la successiva soppressione del Comune, il palazzo ospitò famiglie di varia estrazione, dai bisognosi al «sotterrino», al dottor Sangiorgi da Tossignano; poi, dopo qualche anno di vuoto, forse per sgomberi ed adattamenti, fu anche l’alloggio provvisorio di una maestra di Alfonsine.

 

Correva l’anno 1871, anno forse di primo funzionamento della scuola pubblica a Filo.

 

Il «Campicello»

Tornando all’immagine della cartolina ed osservandone i particolari, possiamo notare, alla destra delle «scuole vecchie», alcuni sviluppi intervenuti nell’area oggi adibita a parcheggio e Monumento ai Caduti. Vediamo un campo coltivato circondato da una siepe e, in un angolo, un nugolo di persone in attesa alla fontana. Lì, un tempo, in un marmo riquadrato, stavano due scritte: «1912», anno di conquista dell’acqua di sorgente, e «metri 96», la profondità della perforazione[4]. A quella fonte (oggi interrata) l’acqua fuorusciva lentamente, ma a getto continuo, da un tubo che spuntava da sotto il livello del terreno, in un vano cui si accedeva scendendo un paio di scalini.

L’immagine dell’ampio campo coltivato, probabilmente a cura degli scolari, ci spiega dunque l’antica destinazione del prato in cui, noi bambini nati nell’immediato dopoguerra, abbiamo giocato alla «flĕpa», ovvero alla lippa, fino al 1955, anno in cui fu eretto il «Monumento»[5].



 Foto sopra: una Festa dell’Unità allestita nel «Campicello», nell’immediato dopoguerra.



Foto a destra: nel «Campicello», intorno al 1940, è arrivato il Circo Bidoni[6]


 

 A fianco del «campicello», nella foto anni ‘10 non c’è ancora il mulino Barabani che lì si trasferirà soltanto alla fine degli anni ’20, con l’arrivo dell’energia elettrica in paese. Nella nostra vecchia cartolina, possiamo ancora notare infatti l’assenza di «pali della luce».

 

1955 - Inaugurazione del Monumento ai Caduti nell’area dell’ex «Campicello»

   Dietro al «Campicello» la cartolina anni ’10 ci mostra una fila di «capanni», in parte forse ancora abitati, allineati su di una stradina, l’attuale Via Giovanni Mezzoli, cui si accede tramite un ponticello sul fossato di scolo.

All’epoca, il fosso decorre dal crocevia, costeggia la rampa e tutta la «Via Chiesa», fino all’antica «Via dei Dossi» e prosegue oltre, lungo lo stradone tracciato da pochi anni e che va dalla vecchia Cà Pisana (caduta con la guerra e visibile parzialmente nel luogo ove stanno ora le due «Case Operaie) fino alla Cà Oca, ovvero l’«Oca-Pisana» che, dopo la bonifica ottocentesca della Valle Risara, aveva accorciato il tragitto verso Bando.

A fianco del fossato e per tutto il corso della «Via Chiesa» notiamo in colore più chiaro un camminamento in terra battuta lungo la rampa che giunge fino alle «scuole vecchie».

Oltre casa Minguzzi (la cà dla Mingóna), e per un’area piuttosto vasta, si estende una rigogliosa vegetazione dovuta forse, più che a residui boschivi, alla locale diffusione della canapa, oppure del gelso, albero basilare per la coltura dei bachi da seta (i cavalìr).

 

Alla destra della «Via Chiesa»

Negli anni del bel «Saluto da Filo di Argenta», come del resto nel 1870 [7] la strada verso la Parrocchiale e il suolo pubblico a fianco, lambivano edifici ed abitazioni formando una specie di «Piazza» del paese. Lo si percepisce dalle persone che vi gravitano e passeggiano,

Al centro e in primo piano, dirimpetto alla cà dla Nunziadìna, una parte della sede stradale funge da aia e una donna, con sporta al braccio e fazzoletto bianco, s’avvicina alle granaglie distese al sole. Di fronte a lei alcuni ragazzini e ragazzine, nonché il brigadiere ed un carabiniere osservano incuriositi il fotografo che li ritrae dall’alto. I vestiti indossati e il numero delle persone in movimento, paiono indicare un giorno di festa. Sullo sfondo la residenza del Parroco, poi rasa al suolo anch’essa dai bombardamenti, par quasi sbarrare la strada e la piazza e delimitare il centro del paese.

 

Nel dopoguerra, rimosse le macerie di questa parte del centro di Filo, come si è già raccontato nella Parte Prima, sorsero le nuove Scuole Elementari ed il borghetto da noi chiamato Corea, nel luogo dell’ex Palazzo Tamba e delle sue adiacenze.

Rivediamo tuttavia, in una seconda carrellata, gli edifici della nostra cartolina, ritratti da diversa prospettiva, in altre fotografie anteguerra, datate pochi anni dopo.

 

La foto a fianco è dei primi anni ’20 del ‘900. Fu scattata, da un punto più avanzato e da posizione più decentrata, forse da una finestra delle «scuole vecchie» (poi Casa del Popolo). L’angolazione, infatti, esclude il campicello, la cà dla Mingóna, e anche la cà dla Nuziadina; lascia invece intravvedere la fontana ove sono in attesa, parecchie persone. Qui si nota meglio la pendenza dla rata d Fìl.

 

 

Casa Tamba e al «scôl nôvi»

La sede stradale è ancora la stessa di dieci anni prima, ma nuovi robusti paracarri segnano l’accesso ad una nuova stradina che dà accesso ad alcune proprietà Tamba. Il giardino che sta dietro al muretto non è più nudo come qualche anno prima; la crescita dell’alberello denota il tempo intercorso dall’epoca della nostra cartolina. Dietro casa Tamba, s’intravvede un’abitazione.

 

Disponiamo infine di altre due foto di fine’20 scattate ragionevolmente nello stesso giorno[8] ma da posizioni diverse. In entrambi la vecchia chiesa abbattuta nel 1931 è ancora in piedi. La prima delle due è una vista dal campicello:


Qui vediamo una bella inquadratura delle cosiddette «scuole nuove» costruite ad inizio Novecento, nell’area del dismesso Cimitero parrocchiale. Ha due ampie e caratteristiche scalinate e finestroni ad arco. La facciata del fabbricato, ridotto in frantumi dai bombardamenti alleati, recava una lapide a ricordo dei caduti della I° Guerra Mondiale[9].

Sulla destra della foto uno scorcio di casa Tamba, abbellita con cornicioni e losanghe assenti qualche anno prima.

In primo piano la vecchia fontana incavata nel terreno; vi si nota il parapetto davanti agli scalini che conducono alla quota più bassa, là ove fluisce l’acqua corrente. Vi si contano nei pressi parecchie persone con un paio di fiaschi a testa, evidentemente venute tutte a piedi (biciclette non ce ne sono…).

 Negli anni della ricostruzione postbellica la vecchia fontana, ormai non più in grado di fornire acqua a sufficienza, fu sostituita da una grande pompa a mano collocata alla destra della «Via Chiesa», appena fuori dal muretto dell’Asilo Parrocchiale (la si vede, seminascosta dal fogliame, in una cartolina anni ’50 - vedi ingrandimento a fianco -).


Con l’arrivo dell’acquedotto, nei primi anni ’60 del Novecento, e con la fornitura di acqua corrente in ogni abitazione, la pompa venne poi soppressa.

 

 

 

 

 

La vecchia chiesa Cinquecentesca ed il suo campanile romanico


 

La seconda foto è l’unica in grado di consentirci l’osservazione frontale della vecchia chiesa Cinquecentesca e del suo solido campanile. Dall’immagine si può percepire quanto essa fosse malridotta  poco prima della sua demolizione; allo stesso tempo possiamo notarvi alcuni interessanti particolari: il grande portone ad arco con porticina per l’uso ordinario, la grande croce incavata nel muro, il finestrone ad arco, il rosone, le tre guglie, i bei motivi cinquecenteschi.

Anche questa foto, come quella dal Campicello, pare scattata di sorpresa. Ognuna delle persone fotografate è dedita a qualcosa, chi a giocare (i bambini che corrono), chi a conversare (l’anziano col bastone appoggiato al muretto della Cà dla Mingóna e i due avventori) e chi, infine, sta forse lavorando con zelo, ossia l’uomo di spalle che si dirige verso la vigna parrocchiale. Questi è parzialmente coperto da un bimbo che guarda nella direzione opposta. Quasi tutte le persone ritratte hanno un copricapo, oppure fazzoletti tradizionali, berretti con visiera. Più di tutti meravigliano le bimbe, col cappellino a mo’ di pompiere, forse in voga a quel tempo.

A differenza della foto primi anni ‘20, qui è già presente la linea elettrica. Si vedono i lampioni, i pali ed i fili decorrenti. La «luce» tanto attesa è giunta da poco e permetterà, proprio in quegli anni (1929) l’edificazione del molino elettrico dei Barabani [10].

Quel mulino, edificato alla fine degli anni ’20, fu poi distrutto dai bombardamenti alleati e fu necessario ricostruirlo di nuovo nel dopoguerra.


 

 

A fianco: Il Mulino Barabani del dopoguerra in un fermo immagine tratto dal film «L’aquilone sul Reno»

 

 

 


È l’edificio che noi anziani abbiamo conosciuto e che fu demolito sul finire del Novecento.

 

°°°

 

Termina qui la nostra passeggiata in tre puntate, fra passato e presente, nel centro di Filo.

Ho cercato di ricostruire e raccontare «com’era», e «com’è diventato», il nostro antico Borgo Maggiore affinché ne rimanga memoria scritta per gli anni a venire.

Forse, data la decadenza subita dal paese negli ultimi decenni, a taluni una rassegna come questa e, in genere, ogni rivisitazione del nostro passato, può comunicare tristezza, oppure sembrare fuori luogo, ma è pur sempre la nostra storia, quella dei nostri padri e dei nostri nonni: una storia, che sta scritta sui libri, ma che ritroviamo anche in sbiadite fotografie, o in vecchi e logori mattoni; una storia cominciata più di mille anni fa, in un gruppo di case e capanne addossate al corso di un grande fiume: il Po vecchio, poi abbandonato, quell’«aqua ‘d Pö» che fece girare le grandi macine del Molino di Filo e che  per secoli ha dispensato ai nostri avi gioie e dolori, alito di vita e immani tragedie. 

La nostra, lo sappiamo, fu una storia di «rivaroli», «vallaroli», pescatori, bracconieri e «servi della gleba», divenuti, anno dopo anno, sempre più contadini, mezzadri e braccianti, capaci di mettere a coltura la terra di bonifica, quella affiorata fra le paludi, come quella sconfinata e liberata dalle acque secolari, una grande distesa di terra, invocata, sognata e sudata che, in uno sforzo comune, con le tante famiglie accorse un paio di secoli fa dalla bassa Romagna, è stata difesa, strappata agli artigli e alle prepotenze dei Signori e dei loro scagnozzi, resa feconda dalla straordinaria forza degli umili, dalla caparbietà di gente testarda, volitiva, laboriosa.  

Una storia che abbiamo il dovere di raccontare ai nostri figli, nipoti e anche, perché no, ai tanti nuovi filesi.

Sono radici lontane, una storia ed un passato da far conoscere e di cui, senza ostentazione, ma con legittimo orgoglio, possiamo ancora andare fieri.



[1] Dai Registri Parrocchiali sappiamo che la «Mingona» era Domenica Bedeschi, un tempo proprietaria della casa, nonna materna di Edoardo Minguzzi, ossia del nonno paterno di Giorgio che ne è ancora proprietario.

[2] Nell’anteguerra, nel centro di Filo, fu adattato anche un terzo edificio a scuola pubblica. Era scherzosamente chiamato e’ pisadùr ed era situato alla destra della Via Provinciale dietro l’ex abitazione Salvatori.

[3] Vedi verbale di adesione in A. Vandini, Filo la nostra terra, Faenza, Edit, 2004, pp.66-67 nota 112.

[4] Vedi L. Ricci Maccarini, Dal Palazzone, Argenta, Offset, 1983, p. 79. La data di perforazione ci permette di collocare quindi con certezza la fotografia riprodotta nella cartolina fra il 1912 ed il 1916 (data del timbro postale).

[5] La denominazione «Campicello scolastico» la troviamo anche in una piantina dell’anno 1907 (E. Checcoli, cit., p.57).

[7] Si veda la planimetria dell’anno 1870 commentata nella parte Seconda.

[8] Lo si deduce dall’identica posizione delle coperte appese alla recinzione fra la chiesa e le scuole «nuove».

[9] L. Ricci Maccarini citò infatti nel suo Dal Palazzone (p. 122) una «[…] tardiva lapide attaccata in una qualche maniera sul frontale delle scuole nuove […]».

[10] I mugnai dell’epoca abbandonarono infatti l’opificio a vapore sito al «Molino di Filo» (e’ mulinàz), ovvero la cosiddetta «fabbrica nuova» che pochi decenni prima (1885), aveva preso il posto di quella più antica, ossia del mulino ad acqua alimentato dal Po vecchio, protagonista di una storia tormentata di chiusure e riaperture, di assalti, demolizioni e ricostruzioni dovuti all’ostilità comacchiese (si veda la storia completa dei «molini di Filvecchio» in A.Vandini, Filo la nostra terra, Faenza, Edit, 2004, pp.327-350).