Il «Grande Torino», un mito nel cuore dei ragazzi del dopoguerra
di
Orazio Pezzi e Agide Vandini
Per capire quanto grande e
sconvolgente era stata la tragedia di Superga, ci bastava guardare, in quei
primi anni ’50, il luccicare degli occhi dei nostri genitori, quando si
toccava quel tasto.
Mio padre Guerriero, grande amante del
calcio, oltre che sostenitore dei rossoblu bolognesi, non mancava mai di
sottolineare il valore di quei campioni scomparsi.
L’occasione capitava di tanto in tanto
quando portavo a casa qualche figurina che ancora li ritraeva. Erano figurine
che non si applicavano in nessun album, mazzette di cartoncino
leggero dal bordo giallo che scorrevamo velocemente da una mano all’altra e che
ci giocavamo davanti alla chiesa a marèla
o zacagn.
Ricordo i nomi strani e altisonanti
che snocciolavo davanti al mio babbo, di sera, quando, ancora in tuta blu e
affaticato dal lavoro, mi teneva sulle ginocchia seduto sotto la finestra: Tognon, Tortul, Zagatti, Silvestri, Toro,
Sentimenti IV, e poi ancora Cappello,
Mike, Nyers, Amadei.
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Il Grande
Torino (1948-49).
In alto (da
sinistra):
Castigliano, Ballarin (I), Rigamonti, Loik, Maroso, Mazzola. In
basso(da sinistra): Bacigalupo, Menti, Ossola, Martelli, Gabetto
(Formazione
tipo 1948-1949 : Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar (Martelli), Rigamonti,
Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola).
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Fra tutti questi, spuntava di tanto in
tanto un Gabetto, oppure un Ballarin II, o magari un Rigamonti o un Maroso,
tutti in maglia color rosso granata ed un’espressione in volto che a me pareva triste, quand'anche epica e grondante della fierezza tipica dei fuoriclasse. Quelle figurine il
mio babbo se le rimirava più di ogni altra e io percepivo in quel momento
un’ammirazione straordinaria verso campioni stimati e benvoluti non soltanto dai
loro sostenitori, ma da tutto un Paese.
Essi avevano saputo accendere in quegli
anni difficili l’orgoglio di un’Italia devastata dalla guerra, di italiani
bisognosi di credere in se stessi e nel loro futuro. Quella fede e quella
voglia di tornare alla pienezza della vita vennero infusi in tanta gente e in
momenti delicatissimi, proprio da campioni dello sport come Coppi, Bartali e il
Grande Torino.
Ricordo poi, in anni successivi, i
racconti degli epici duelli fra Biavati e Maroso ascoltati all’osteria, in
particolare da Arturo Cobianchi detto Vivadio
e da Max Barabani, uno interista, l’altro iuventino ma, come mio padre, sportivi
veri che allo stadio di Bologna, pur con gli immaginabili disagi e sacrifici, accorrevano
consapevoli di assistere ad una grande parata di campioni; e il duello fra Biavati,
l’ala rossoblu dal passo doppio, e Maroso, classico ed elegante terzino granata,
era, a loro dire, uno «spettacolo nello spettacolo».
Mentre io, col passare degli anni, non
potei che finire nell’imbuto del grande amore per i colori rossoblu respirato a
casa mia, il mio amico Orazio, cresciuto in una borgata in cui era ancora forte e
diffusa la passione per il Grande Torino, subì il fascino irresistibile dei
colori granata.
E’ con vero piacere che pubblico nell’«Irôla»,
dove stanno in bella mostra tanti suoi scritti e poesie, il racconto della sua tanto
desiderata visita a Superga, soprattutto nel ricordo di un Mito che ancora oggi
alberga nei cuori dei veri appassionati di calcio, di una icona sportiva che
sta tutta, forse, in quell’aggettivo «Grande» incollato ad aeternum, ieri, oggi, domani, al nome di quella squadra leggendaria:
il Grande Torino. Nomen omen. (Agide
Vandini)
***
Io, cuore granata, a Superga
di
Orazio Pezzi
Il cielo era tutto coperto quando la
mattina del 25 settembre verso le ore
9,30 sono salito sull’autobus 61 diretto verso Sassi. Lì avrei trovato
il trenino a cremagliera che mi avrebbe portato su alla Basilica.
Dentro di me non sapevo cosa
aspettarmi, se stupore, se angoscia, se orgoglio misto a tristezza, se
compianto e tenerezza; stavo seduto nel bus in compagnia della mia prima
volta a Torino.
Giunto a Sassi ho appreso che di
martedì il trenino a cremagliera riposava, sono così salito su un piccolo e
scalcagnato bus che fra scarrocciamenti, sobbalzi e rumori vari mi ha
comunque portato sul piazzale della Basilica.
Oh gran bontà delle prime volte, sono
sempre uniche, l’atmosfera era surreale, una nebbia fittissima avvolgeva la
Basilica, dalla fermata dell’autobus non si riusciva a capire se la chiesa
fosse a destra, a sinistra o di fronte; di colpo ero piombato nel quattro
maggio del 1949.
Sì, doveva essere stato proprio così,
un’invisibilità totale aveva sicuramente avvolto Superga e inghiottito i
ragazzi del Toro; ragazzi i cui nomi sono entrati nel mito.
Io ero lì; fin da bambino ero lì con
il mio immaginario, con l’album delle figurine, con i nomi imparati a
memoria; ora ero lì in età matura con le emozioni del mio cuore di bambino;
ho preso il sentiero che costeggia il muro esterno della Basilica e sono
arrivato sul retro dove è posta la lapide.
Nessuno sfoggio di bandieroni, di
corone, di cimeli, una sobrietà unica, qualche vaso con fiori rossi una foto
di fianco alla lapide, un breve scritto a memoria e cosa più importante
qualche frase d’amore della gente granata.
Così poco per così grandi?
Ho capito meglio quello che sapevo
già, ogni tifoso del Toro coltiva il suo amore nel giardino del suo cuore,
non si cura mai molto degli avvenimenti reali perché è cosciente di far parte
egli stesso del mito ed il mito è oltre la realtà e non ha tempo.
Sono risalito dal lato opposto, ero
stato così assorto che non avevo nemmeno scattato qualche foto; era giusto
scattarne qualcuna?
Ho pensato che sì, allora sono
ritornato sui miei passi e mi sono messo al collo il ricordo visivo di quel
luogo etereo, dove tutto è sospeso fra realtà e immaginario.
Sono risalito sul bus scalcagnato; a
Sassi ho ripreso il 61 che mi ha riportato in Via Vittorio Emanuele II, non
mi rendevo ancora conto che avevo appena fatto una cosa desiderata tutta la
vita.
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Le mie foto:
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