2012, una bella festa a Filo
di Agide Vandini
E’ stato un 14 aprile piovoso quest’anno, tanto
da rendere impraticabile la biciclettata messa in programma. E’ riuscito molto
bene però il ritrovo alla Casa del Popolo. Sono stati accolti con grande
piacere da una sala gremita i canti del duo “Dodici corde” ed anche le letture
proposte e che trovate qui di seguito.
Non
ho potuto leggere invece una bella testimonianza giuntami via mail quello
stesso pomeriggio, da Aderito Geminiani (Pippi),
indimenticata gloria calcistica filese del dopoguerra e da tempo residente a
Bologna. Pippi a quell’epoca era poco più di un bimbetto. Riporto la sua
lettera all’attenzione dei lettori, ma non mancherò di leggerla in pubblico
alla prossima, idonea occasione.
Caro
Agide,
oggi
è una brutta giornata, sotto l’aspetto climatico, ma ha un sole splendente
nella memoria di chi come me ricorda bene quella giornata di 67 anni fa.
Avevo
quasi sette anni (li avrei compiuti a giugno) ed è perciò nitido nella mia
memoria quell'evento. Noi (dico mio padre, mia madre, la nonna ed anche la
famiglia di mio cugino Enrico di pochi mesi), eravamo sfollati presso Sacrato,
lungo la strada che porta al Po (Reno).
Vidi
in quei momenti un certo Sula, lo zio
di Minguzzi Roberto e Giorgio, che brandiva un palo davanti a sé, alla cui cima
era stato legato un lenzuolo bianco. Si dirigeva verso l’argine del fiume come
per avvertire gli alleati (provenienti proprio da quella direzione) che i
tedeschi erano in fuga verso non so quale punto cardinale [verso nord].
Li
vidi arrivare, i militari liberatori, poco dopo; passarono davanti a casa molto
timorosi e guardinghi per paura di agguati improvvisi.
Grande
fu l’accoglienza che ricevettero da tutti. Mi dissero che erano Inglesi; uno mi
si avvicinò e mi porse una cioccolata, almeno credo col senno di poi. Io, tenendo
per mano la mamma, mi nascosi dietro di Lei finché non mi disse che potevo
prenderla.
Il
soldato, che tanto aveva gioito nel porgermela, volle prendermi in braccio ed
io con grande sgomento guardai mio padre che, a quel punto, mi sorrise; fu così
che capii di essere in buone mani.
E’
questo il ricordo più caro rimasto nella mia mente sino ad oggi.
La
sera stessa si tenne in quella casa colonica un gran convivio ed io, stanco
morto, avrei voluto assistere alle tante manifestazioni di gioia; purtroppo, però, mi
addormentai nel giaciglio che mi era stato assegnato nella stalla dentro la
greppia.
Ricordo
anche che, all’indomani, la nonna era assai preoccupata. Temeva che la Lina
[Angela Toschi], la madre di mio cugino Enrico nato da appena un paio di mesi, a
causa di tutte quelle emozioni avesse perso il latte e che non potesse più alimentarlo.
Fortunatamente, poi, tutto si risolse positivamente.
Vorrei
tanto che simili tragedie non si ripetessero mai più.
Ti
saluto caramente
Pippi (Aderito
Geminiani)
Bologna,
14 aprile, 2012
La morte di Mario Babini
Mario
salì in bicicletta e salutò un compagno sul ponte.
[...]Mario
fermò i pedali, andò giù rapido in discesa frusciando sui copertoni frusti.
La
strada si era fatta grigia e deserta, lui guardava il colore dell'asfalto, lo
riconosceva per averlo percorso tante volte, come il pavimento della sua
stanza.
Pensava
intanto alla giornata dura che aveva passato, piena di rischi per il lavoro
clandestino, alle tante altre giornate dure che dovevano passare prima che gli
angloamericani proseguendo su per l'Italia arrivassero alle province del nord
occupate dai tedeschi e dai fascisti. Si trovò a canticchiare sul ritmo della
pedalata: - Vanno piano piano, chissà quando li vedremo -. Così distratto,
all'improvviso, vide a destra il muro di casa, frenò, mise un piede a terra.
E
proprio in quel punto lo colse un lampo e un rumore, e il pensiero gli si
spense. Cadde in avanti con le braccia tese, scaraventò per l'urto la
bicicletta quasi in mezzo alla strada. Rimase lì, immoto, con la faccia presso
il gradino della sua porta. Un momento di silenzio, pesante come il piombo. Poi
dalla casa uscirono uomini e donne; una di esse alzò un urlo acutissimo che si
perdette nell'eco, gli altri correvano piangendo, gridando, ma la strada si
riempì di armati, visi rigidi, mani pronte sul mitra, e subito ricacciarono
indietro il gruppo,...
La
morte di Mario era stata decretata ed eseguita «per l'esempio»[...]
Mario
non era soltanto un uomo giovane, buono, amato dalla famiglia, ma un capo, un
dirigente della lotta antifascista, il maggior capo e dirigente di quella zona
di valle dove si stava creando una formazione garibaldina.
[...]Mario
era lì nella bara, sollevata da parte della testa : lo stomaco e l'addome erano
gonfi e tesi, la faccia sembrava più piccola, bruna, con gli occhi chiusi dalle
ciglia scure. Pareva come nelle ore più ardenti, quando parlava ai compagni
nelle riunioni, in quattro, cinque, sei, raccolti in una stalla, o seduti alla
proda di un fosso. Nel discorso appassionato talvolta chiudeva gli occhi,
cercava la parola dentro di sé, trovava la maniera di esprimersi perché gli
altri ne fossero persuasi.
Ora
era silenzioso, immobile[...] disse Brando: «Ci sono i partigiani della
valle»[...]«Faremo una brigata garibaldina, e si chiamerà col nome di Mario».
«La nostra brigata si chiamerà col nome di Mario - continuò con voce uguale,
quasi monotona - Sarà il più bel modo per ricordarci come l'hanno ammazzato e
per seguitare quel che voleva lui».
(Da
Il ritratto di Garibaldi di Renata Viganò)
Siamo Operai Di Un
Grande Mestiere
di Renata Viganò
Compagni,
bisogna restare qui.
E'
una casa di contadini,
e
i contadini hanno paura.
Ci
faremo la vita dura.
Ma
bisogna restare qui.
Abbiamo
le armi e non abbiamo le scarpe.
Metti
i piedi in mezzo alla paglia,
tirati
addosso il tuo cappotto.
C'è
un po' di caldo qui sotto,
un
po' di caldo di stalla.
Compagni,
dobbiamo dormire:
dormire
molto senza pensare.
Se
tu non hai sonno, non mi svegliare;
se
anch'io non ho sonno ci mettiamo a cantare.
Ma
non parliamo di casa:
se
dite dei nomi di donna,
mi
vengono in mente i morti.
I
morti son là sotto terra,
lungo
l'argine, senza croci.
Poca
è la terra e sottile è la bara.
Sembra
che possano sentire
e
respirare quest'aria amara.
Sembra
che debbano venire
qui
nella casa e bussare alla porta,
con
gran rumore di scarpe e di voci:
«Aprite,
compagni, siam noi».
Ma
se qualcuno bussa alla porta,
pronti
col mitra, che amici non sono.
Non
torneranno i compagni morti:
noi,
forse, domani andremo da loro.
Ragazzi,
a turno, in un solo bicchiere,
beviamo
quel fiasco di vino buono.
Siamo
operai di un grande mestiere,
e
fra poco ricomincia il lavoro.
Adesso
è tempo di riposare.
Se
tu sei triste non mi parlare;
se
anch'io sono triste
ci
metteremo a cantare.
Ma
io vorrei morire stasera,
e
che voi tutti moriste
col
viso nella paglia marcia,
se
dovessi un giorno pensare
che
tutto questo fu fatto per niente.
(Da
Epopea Partigiana di Antonio
Meluschi)
(Da Epopea
Partigiana di Antonio Meluschi)
(cliccare sull'immagine per vederla ingrandita)
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14 aprile 1945: il
centro di Filo
LIBERAZIONE
Il
sofferto compimento del tremendo tempo, il tanto atteso avvento, ha la data del
7 aprile ad Anita, del 12 a
Longastrino, del 14 a
Filo, del 16 a
S.Biagio e del 18 ad Argenta; quindi fino a dopo il 25 aprile, risale e si dilata,
inarrestabile, verso Ferrara e nell'oltrepò.
E'
la liberazione!
E'
il ritornare a credere nella vita, anche se qualche velivolo tedesco, di notte,
reca l'ultima apprensione, che si possa morire, ora, quando tutto sembra
finito.
Ci
ritroviamo : quanti ancora gli assenti !...
A
decine, purtroppo, non li riavremo con noi se non nel ricordo.
Pure,
prima di contarci bene, di altri dovremo attendere l'arrivo, se ci sarà un
ritorno : sono prigionieri, sono deportati, di cui non si conosce la sorte,
mentre anche di altri mancano nuove dalle vicine colline, dove nobilitarono una
fede.
E
ci guardiamo attorno.
Oh
case nostre, care paterne case, erette con la malta e coi mattoni crudi avuti
dall'argilla del Primaro, piene di sorci e d'insetti, ristrette attorno alle
famiglie sempre crescenti ; quante volte abbiamo bestemmiato le mura ormai
cadenti, i topi, le pulci, l'angustia e la miseria: ma quanto più imprechiamo
oggi che non ci siete più!
Vi
era la fontana ai piedi della rampa segnata dall'eccidio dell'immane
rappresaglia: sul marmo riquadrato della fonte, poi abbattuto per seguire la
continua depressione del debole zampillo, si leggeva la data del 1912, che
indicava l'agognata conquista dell'acqua di sorgente, e, più sotto, recava
annotata la quota di perforazione : metri 96.
Dov'era,
e nello spazio attorno, ora vi sono due crateri di bombe, come altri due, pure
immensi, oltre la strada, sono al posto della scuola «nuova» e del palazzo di
un ricco possidente.
Più
su, lungo la Provinciale,
ritroviamo l'annerita disperata visione della fila di case, morte di fuoco.
A
destra, ancora, del robusto mulino e della palazzina del mugnaio, non resta
nulla, mentre, dinnanzi ai mucchi di macerie, una vecchia casupola, forse la
più antica fra tante e la Cà Longa, sbrecciate
ma ancora in piedi, sembrano assistere stupite dell'altrui solidità che nulla
valse.
E'
la liberazione, ma non ci esalta, perché è pure l'assistere all'avvenuta rovina
del paese; è il rituale dei lutti e delle donne in nero; è l'apprensione nuova
del grande bisogno di ricominciare.
Ma
è la liberazione : e il ritrovarci, il guardarci attorno, il discutere, il
rimuovere i segni della guerra, ridona la fede nella vita, come porta, ancora,
la speranza che il mondo, domani, sarà più giusto ed aperto alla presenza della
gente che lavora.
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