lunedì 30 aprile 2012

14 Aprile, anniversario della Liberazione



2012, una bella festa a Filo
di Agide Vandini



E’  stato un 14 aprile piovoso quest’anno, tanto da rendere impraticabile la biciclettata messa in programma. E’ riuscito molto bene però il ritrovo alla Casa del Popolo. Sono stati accolti con grande piacere da una sala gremita i canti del duo “Dodici corde” ed anche le letture proposte e che trovate qui di seguito.
Non ho potuto leggere invece una bella testimonianza giuntami via mail quello stesso pomeriggio, da Aderito Geminiani (Pippi), indimenticata gloria calcistica filese del dopoguerra e da tempo residente a Bologna. Pippi a quell’epoca era poco più di un bimbetto. Riporto la sua lettera all’attenzione dei lettori, ma non mancherò di leggerla in pubblico alla prossima, idonea occasione.


Caro Agide,

oggi è una brutta giornata, sotto l’aspetto climatico, ma ha un sole splendente nella memoria di chi come me ricorda bene quella giornata di 67 anni fa.
Avevo quasi sette anni (li avrei compiuti a giugno) ed è perciò nitido nella mia memoria quell'evento. Noi (dico mio padre, mia madre, la nonna ed anche la famiglia di mio cugino Enrico di pochi mesi), eravamo sfollati presso Sacrato, lungo la strada che porta al Po (Reno).
Vidi in quei momenti un certo Sula, lo zio di Minguzzi Roberto e Giorgio, che brandiva un palo davanti a sé, alla cui cima era stato legato un lenzuolo bianco. Si dirigeva verso l’argine del fiume come per avvertire gli alleati (provenienti proprio da quella direzione) che i tedeschi erano in fuga verso non so quale punto cardinale [verso nord].
Li vidi arrivare, i militari liberatori, poco dopo; passarono davanti a casa molto timorosi e guardinghi per paura di agguati improvvisi.
Grande fu l’accoglienza che ricevettero da tutti. Mi dissero che erano Inglesi; uno mi si avvicinò e mi porse una cioccolata, almeno credo col senno di poi. Io, tenendo per mano la mamma, mi nascosi dietro di Lei finché non mi disse che potevo prenderla.
Il soldato, che tanto aveva gioito nel porgermela, volle prendermi in braccio ed io con grande sgomento guardai mio padre che, a quel punto, mi sorrise; fu così che capii di essere in buone mani.
E’ questo il ricordo più caro rimasto nella mia mente sino ad oggi.
La sera stessa si tenne in quella casa colonica un gran convivio ed io, stanco morto, avrei voluto assistere alle tante  manifestazioni di gioia; purtroppo, però, mi addormentai nel giaciglio che mi era stato assegnato nella stalla dentro la greppia.
Ricordo anche che, all’indomani, la nonna era assai preoccupata. Temeva che la Lina [Angela Toschi], la madre di mio cugino Enrico nato da appena un paio di mesi, a causa di tutte quelle emozioni avesse perso il latte e che non potesse più alimentarlo. Fortunatamente, poi, tutto si risolse positivamente.
Vorrei tanto che simili tragedie non si ripetessero mai più.

Ti saluto caramente

 Pippi (Aderito Geminiani)

Bologna, 14 aprile, 2012





La morte di Mario Babini

Mario salì in bicicletta e salutò un compagno sul ponte.
[...]Mario fermò i pedali, andò giù rapido in discesa frusciando sui copertoni frusti.
La strada si era fatta grigia e deserta, lui guardava il colore dell'asfalto, lo riconosceva per averlo percorso tante volte, come il pavimento della sua stanza.
Pensava intanto alla giornata dura che aveva passato, piena di rischi per il lavoro clandestino, alle tante altre giornate dure che dovevano passare prima che gli angloamericani proseguendo su per l'Italia arrivassero alle province del nord occupate dai tedeschi e dai fascisti. Si trovò a canticchiare sul ritmo della pedalata: - Vanno piano piano, chissà quando li vedremo -. Così distratto, all'improvviso, vide a destra il muro di casa, frenò, mise un piede a terra.
E proprio in quel punto lo colse un lampo e un rumore, e il pensiero gli si spense. Cadde in avanti con le braccia tese, scaraventò per l'urto la bicicletta quasi in mezzo alla strada. Rimase lì, immoto, con la faccia presso il gradino della sua porta. Un momento di silenzio, pesante come il piombo. Poi dalla casa uscirono uomini e donne; una di esse alzò un urlo acutissimo che si perdette nell'eco, gli altri correvano piangendo, gridando, ma la strada si riempì di armati, visi rigidi, mani pronte sul mitra, e subito ricacciarono indietro il gruppo,...
La morte di Mario era stata decretata ed eseguita «per l'esempio»[...]
Mario non era soltanto un uomo giovane, buono, amato dalla famiglia, ma un capo, un dirigente della lotta antifascista, il maggior capo e dirigente di quella zona di valle dove si stava creando una formazione garibaldina.
[...]Mario era lì nella bara, sollevata da parte della testa : lo stomaco e l'addome erano gonfi e tesi, la faccia sembrava più piccola, bruna, con gli occhi chiusi dalle ciglia scure. Pareva come nelle ore più ardenti, quando parlava ai compagni nelle riunioni, in quattro, cinque, sei, raccolti in una stalla, o seduti alla proda di un fosso. Nel discorso appassionato talvolta chiudeva gli occhi, cercava la parola dentro di sé, trovava la maniera di esprimersi perché gli altri ne fossero persuasi.
Ora era silenzioso, immobile[...] disse Brando: «Ci sono i partigiani della valle»[...]«Faremo una brigata garibaldina, e si chiamerà col nome di Mario». «La nostra brigata si chiamerà col nome di Mario - continuò con voce uguale, quasi monotona - Sarà il più bel modo per ricordarci come l'hanno ammazzato e per seguitare quel che voleva lui».

(Da Il ritratto di Garibaldi di Renata Viganò)




Siamo Operai Di Un Grande Mestiere
di Renata Viganò

Compagni, bisogna restare qui.
E' una casa di contadini,
e i contadini hanno paura.
Ci faremo la vita dura.
Ma bisogna restare qui.

Abbiamo le armi e non abbiamo le scarpe.
Metti i piedi in mezzo alla paglia,
tirati addosso il tuo cappotto.
C'è un po' di caldo qui sotto,
un po' di caldo di stalla.

Compagni, dobbiamo dormire:
dormire molto senza pensare.
Se tu non hai sonno, non mi svegliare;
se anch'io non ho sonno ci mettiamo a cantare.

Ma non parliamo di casa:
se dite dei nomi di donna,
mi vengono in mente i morti.
I morti son là sotto terra,
lungo l'argine, senza croci.
Poca è la terra e sottile è la bara.
Sembra che possano sentire
e respirare quest'aria amara.
Sembra che debbano venire
qui nella casa e bussare alla porta,
con gran rumore di scarpe e di voci:
«Aprite, compagni, siam noi».
Ma se qualcuno bussa alla porta,
pronti col mitra, che amici non sono.
Non torneranno i compagni morti:
noi, forse, domani andremo da loro.

Ragazzi, a turno, in un solo bicchiere,
beviamo quel fiasco di vino buono.
Siamo operai di un grande mestiere,
e fra poco ricomincia il lavoro.
Adesso è tempo di riposare.
Se tu sei triste non mi parlare;
se anch'io sono triste
ci metteremo a cantare.

Ma io vorrei morire stasera,
e che voi tutti moriste
col viso nella paglia marcia,
se dovessi un giorno pensare
che tutto questo fu fatto per niente.

(Da Epopea Partigiana di Antonio Meluschi)




(Da Epopea Partigiana di Antonio Meluschi)
(cliccare sull'immagine per vederla ingrandita)




14 aprile 1945: il centro di Filo












LIBERAZIONE

Il sofferto compimento del tremendo tempo, il tanto atteso avvento, ha la data del 7 aprile ad Anita, del 12 a Longastrino, del 14 a Filo, del 16 a S.Biagio e del 18 ad Argenta; quindi fino a dopo il 25 aprile, risale e si dilata, inarrestabile, verso Ferrara e nell'oltrepò.
E' la liberazione!
E' il ritornare a credere nella vita, anche se qualche velivolo tedesco, di notte, reca l'ultima apprensione, che si possa morire, ora, quando tutto sembra finito.
Ci ritroviamo : quanti ancora gli assenti !...
A decine, purtroppo, non li riavremo con noi se non nel ricordo.
Pure, prima di contarci bene, di altri dovremo attendere l'arrivo, se ci sarà un ritorno : sono prigionieri, sono deportati, di cui non si conosce la sorte, mentre anche di altri mancano nuove dalle vicine colline, dove nobilitarono una fede.
E ci guardiamo attorno.
Oh case nostre, care paterne case, erette con la malta e coi mattoni crudi avuti dall'argilla del Primaro, piene di sorci e d'insetti, ristrette attorno alle famiglie sempre crescenti ; quante volte abbiamo bestemmiato le mura ormai cadenti, i topi, le pulci, l'angustia e la miseria: ma quanto più imprechiamo oggi che non ci siete più!
Vi era la fontana ai piedi della rampa segnata dall'eccidio dell'immane rappresaglia: sul marmo riquadrato della fonte, poi abbattuto per seguire la continua depressione del debole zampillo, si leggeva la data del 1912, che indicava l'agognata conquista dell'acqua di sorgente, e, più sotto, recava annotata la quota di perforazione : metri 96.
Dov'era, e nello spazio attorno, ora vi sono due crateri di bombe, come altri due, pure immensi, oltre la strada, sono al posto della scuola «nuova» e del palazzo di un ricco possidente.
Più su, lungo la Provinciale, ritroviamo l'annerita disperata visione della fila di case, morte di fuoco.
A destra, ancora, del robusto mulino e della palazzina del mugnaio, non resta nulla, mentre, dinnanzi ai mucchi di macerie, una vecchia casupola, forse la più antica fra tante e la Cà Longa, sbrecciate ma ancora in piedi, sembrano assistere stupite dell'altrui solidità che nulla valse.
E' la liberazione, ma non ci esalta, perché è pure l'assistere all'avvenuta rovina del paese; è il rituale dei lutti e delle donne in nero; è l'apprensione nuova del grande bisogno di ricominciare.
Ma è la liberazione : e il ritrovarci, il guardarci attorno, il discutere, il rimuovere i segni della guerra, ridona la fede nella vita, come porta, ancora, la speranza che il mondo, domani, sarà più giusto ed aperto alla presenza della gente che lavora.

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