Il soldato Felloni Selvino fra i dispersi in quell’orribile scenario di guerra
di Agide Vandini
L’anniversario. Ricorre proprio in questi giorni il 66° del siluramento del transatlantico inglese Laconia al largo della costa africana e di quel che ne seguì, una storia scabrosa di cui si è sempre parlato poco, ma che può essere considerata, per certi aspetti, una delle pagine più nere della Seconda Guerra mondiale.
Prima di riassumere per sommi capi tutta la vicenda e di rimandare l’approfondimento ai numerosi siti internet che la riportano e la commentano nei particolari, è bene dire che di essa ci si occupa oggi in questo blog soprattutto in ricordo di un militare filese che, proprio a seguito di quel tragico affondamento, fu dato per disperso e che al suo paese, perciò, non tornò mai più.
L’atrocità della vicenda che lo coinvolse assieme ai suoi compagni fu tale che, pur nella considerazione delle numerose tragedie che toccarono tante famiglie filesi [1], sento il dovere di onorare, in modo speciale e con tutto il rispetto e il cordoglio che merita, la memoria di questo soldato scomparso nelle acque dell’Oceano Atlantico, così lontano dal suo paese.
Si tratta del militare Felloni Selvino (vedi foto a fianco) del quale Egidio Checcoli, ne Il filo della memoria (Prato, Editrice Consumatori, 2002, p.121) ha accuratamente riportato: «Soldato, XXVIII° Settore G.A.F. di Draga(Fiume), dichiarato disperso nell’affondamento del Laconia il 12.9.1942. Aveva 29 anni». Lo studioso Gian Paolo Bertelli, autore di una interessantissima opera sull'argomento [ Da El Alamein al Laconia, Modena, Digital Borghi, 2008 ], controllata la documentazione in suo possesso, ha potuto dedurre che Felloni era in forza al XXVII° settore Guardie alla Frontiera di stanza a Fiume e non al XXVIII°. Da Fiume, Felloni Selvino fu trasferito a Castel Benito (Zuara) in Libia, da li fu inviato al seguito dell'avanzata di Rommel in Egitto dove venne presumibilmente catturato durante la battaglia di El Alamein (19.09.2009).
L’affondamento del Laconia. Ecco dunque la ricostruzione sommaria della triste vicenda.
La notte del 12 settembre del 1942, nei pressi dell'isola di Ascensione (v. posizionamento nella mappa a fianco), un U-boot tedesco, l'U-156 al comando del tenente di vascello Werner Hartenstein, inquadrò e colpì il Laconia, un transatlantico varato nel 1922 da circa 20.000 tonnellate convertito dagli inglesi in mercantile armato per il trasporto delle truppe (v. disegno più sotto).
La nave era salpata da Suez il 12 agosto con a bordo, diretti alla volta dell'Inghilterra, 463 ufficiali e uomini di equipaggio; 286 passeggeri militari inglesi; 103 guardie polacche; 1.800 prigionieri di guerra italiani e 80 tra donne e bambini.
I militari italiani, all’epoca alleati dei tedeschi, erano stati fatti prigionieri nel luglio precedente dopo la prima battaglia di El Alamein. Il mese di navigazione li aveva messi a dura prova, ammassati in tre stive con razioni di viveri inadeguate, ma ormai si era a poche settimane dall’arrivo in Inghilterra. La notte del 12 settembre, il Laconia, navigava a luci spente e zigzagava come di routine per evitare gli attacchi dei sommergibili nemici che pattugliavano tutti i settori dell'Atlantico. Fu centrato da due siluri ed affondò in circa due ore.
Il sommergibile tedesco emerse ed il suo comandante si accorse che tra i naufraghi c’erano numerosi soldati alleati italiani. Appresa la composizione dei passeggeri informò immediatamente il Comando navale tedesco. Il viceammiraglio Dönitz acconsentì al salvataggio dei naufraghi, ordinando allo stesso tempo ad altre unità navali, tedesche ed italiane, di far rotta verso il luogo del disastro.
Dai primi racconti dei naufraghi italiani emerse però una realtà inquietante, che fu annotata nel giornale di bordo del comandante Hartenstein: «00 h 7722 – SO. 3. 4. Visibilità media. Mare calmo. Cielo molto nuvoloso. Secondo le informazioni degli italiani, gli inglesi, dopo esser stati silurati, hanno chiuso le stive dove si trovavano i prigionieri. Hanno respinto con armi coloro che tentavano di raggiungere le lance di salvataggio…».
In sostanza le guardie polacche avevano ricevuto l’ordine di lasciare i 1800 prigionieri di guerra italiani chiusi nelle stive, condannati di fatto ad una morte orribile per affogamento. Le testimonianze su quei tragici momenti apparivano agghiaccianti, qualcuno dei prigionieri pare avesse tentato addirittura di suicidarsi battendo la testa contro le pareti dello scafo. Con la forza della disperazione i reduci del deserto si erano scagliati contro i cancelli sbarrati, davanti alle guardie che non esitavano a respingerli a colpi di baionetta o a sparare a bruciapelo. L’orrore era poi proseguito sul ponte della nave, dove si era sparato sugli italiani che cercavano posto nelle scialuppe e ad alcuni erano anche stati recisi i polsi affinché non potessero più arrampicarsi.
L’emersione del sommergibile aveva posto fine alla barbarie, ma si è potuto calcolare che ben oltre un migliaio di italiani fossero già morti direttamente nelle stive e in quelle prime ore disperate.
Le operazioni di salvataggio, che durarono alcuni giorni, consentirono al comandante Hartenstein di salvare sul suo, e sugli altri U-Boot, centinaia di naufraghi, in attesa dell’arrivo di una nave francese di soccorso, un incrociatore della classe Gloire partito da Dakar. I quattro sommergibili si trovarono carichi di prigionieri, sia all’interno che sul ponte di coperta; in più trainavano molte scialuppe di salvataggio quasi nell’impossibilità di immergersi (v.immagini a fianco). Come se non bastasse il sangue dei feriti aveva richiamato sul posto tutti gli squali della zona che facevano scempio dei vivi e dei cadaveri.
La tragedia sembrava giunta alla fine, ma in realtà le sorprese non erano finite.
In quelle difficili condizioni, il 16 settembre, alle ore 11 e 25, fu avvistato un bombardiere americano del modello B-24 Liberator, comandato dal tenente pilota James D. Harden. Dall’aereo si potevano osservare i sommergibili e vedere sopra coperta, come da convenzione internazionale, i teli bianchi con la croce rossa, indicanti prigionieri a bordo. Di più: Hartenstein chiese ad uno degli ufficiali inglesi che si trovavano sul suo U-Boot di trasmettere - in inglese - all’aereo il seguente messaggio: «Qui ufficiale Raf a bordo del sommergibile tedesco. Ci sono i naufraghi del Laconia, soldati, civili, donne e bambini».
Il Liberator non rispose e si allontanò. Il tenente pilota Harden telegrafò però al suo punto di appoggio che si trovava sull’isola di Asuncion, da dove il comandante in capo, il colonnello Robert C. Richardson III, impartì l’ordine chiaro «Sink sub».
Il Liberator tornò alle 12 e 32 per bombardare i sommergibili. Caddero cinque bombe, di cui una centrò una scialuppa ed una colpì l’U-Boot causando avarie agli accumulatori ed al periscopio. Hartenstein a quel punto fece tagliare le cime con le scialuppe e si immerse.
I superstiti (700 inglesi, 373 italiani e 72 polacchi) furono poi presi a bordo dalla nave francese di soccorso e giunsero a Dakar il 27 settembre.
Dönitz diventò ammiraglio alla fine di quell’estate e dispose che i sommergibili non avrebbero più raccolto naufraghi delle navi affondate e questo fu uno dei capi di imputazione sulla sua testa al processo di Norimberga, il 9 maggio 1946. Dönitz, che fu poi condannato a 10 anni di prigione, si difese proprio citando il bombardamento dei sommergibili dopo l’affondamento del Laconia.
Dei 1800 italiani, circa 1400 morirono annegati, in gran parte intrappolati nella stiva della nave. Fra essi anche il nostro compaesano, il filese ventinovenne Felloni Selvino.
Una tragedia di guerra, la guerra come tragedia. Di questa vicenda si è parlato con parsimonia nel dopoguerra e ben pochi si sono occupati di quei poveri morti. Per gli annegati del Laconia, dunque, c'è sempre stato solo il dolore privato delle famiglie e qualche sommesso quanto rispettoso ricordo, come questo modesto scritto, a tanti anni da quei fatti. Poche, e poco autorevoli le ammissioni di colpa da parte degli anglo americani che, a quanto si legge, hanno sempre per lo più ignorato, nel dopoguerra, l'avvenimento.
E’, quella del Laconia, comunque la si interpreti, una pagina ben poco onorevole, ma è anche uno dei tanti misfatti di una guerra insensata, in cui ci portò colpevolmente un regime autoritario e liberticida, responsabile di aver arrecato all’Italia, oltre ai tanti lutti famigliari, una rovina morale e materiale dalla quale ci si è potuti sollevare soltanto con grande sacrificio ed unità di popolo.
Sia allora questo piccolo ricordo del filese Selvino, disperso coi suoi tanti compagni all’altra parte del mondo, ingoiato dall’Oceano al largo dell’Africa nella più sconvolgente delle tragedie, un monito e una preghiera contro la pazzia della guerra, contro l’odio insensato ed il disprezzo per la vita, quasi sempre fomentato dal nazionalismo più becero, e sia un accorato appello contro quella violenza, prepotenza e sopraffazione che possono fare dell’uomo, ancora oggi, una bestia così spietata e feroce.
Questi alcuni indirizzi web ove si consiglia di approfondire l’argomento:
http://cronologia.leonardo.it/battaglie/batta108.htm
http://digilander.libero.it/lacorsainfinita/deserto/prigionieri/affondamentolaconia.htm
http://wernerhartenstein.tripod.com/italiano01.htm
http://wernerhartenstein.tripod.com/index.htm
http://www.mclink.it/com/inform/art/07n16619.htm
http://it.wikipedia.org/wi\ki/Incidente_del_Laconia
[1] Il piccolo paese subì occupazioni, devastazioni, rappresaglie, fucilazioni, bombardamenti e contò, purtroppo, un numero spaventoso di vittime, sia del conflitto (141 Caduti, di cui: 18 Martiri della Libertà, 31 Militari, 92 Civili), sia delle conseguenze postbelliche (28 Vittime, di cui: 23 per gli sminamenti, 5 per morti violente da mano ignota).