Il ricordo di un’indimenticabile vicina di casa
di Agide Vandini
Poco più di un mese fa ci ha lasciato Luisa Matulli, cara amica
d’infanzia con cui ho giocato fino alla metà degli anni ’50, anni in cui la sua
famiglia se ne andò dalle «case operaie». Sapere di questa perdita è stato un
momento doloroso, per me come per Romeo Cantelli, altro compagno di giochi, una
mestizia però da cui è riaffiorato il bel ricordo di quegli anni e del legame
affettivo che univa gli inquilini delle prime due case condominiali edificate nel
dopoguerra.
Nella prima delle case gemelle
abitavano all’epoca sei famiglie, tre al piano inferiore: mio padre Ghéo, Chilĕn Ricci Maccarini e Cantlĕñ
(Quinto Cantelli, padre del futuro Don Romeo); altrettante al piano superiore: Ciarẽñ Coatti, Banzi Quinto (Pezöli) e Töni Matulli, nonno della Luisa.

Nella foto dei primissimi anni ‘50, alcuni degli abitanti della casa. Accucciati: io,
Luisa Matulli e Romeo Cantelli. In piedi: Adriana Guasoni, nonna di Luisa,
Lucia Coatti (ad Ciarèñ), Elvia
Matulli (zia di Luisa), Clara Costa (mamma di Luisa), Carla Coatti (ad Ciarèñ).
Di quegli anni e della vita di allora, in estrema umiltà e forti di un grande spirito di solidarietà, raccontai diffusamente una trentina d’anni
fa nel mio primo libro di narrativa, una raccolta di piccoli aneddoti che
piacque molto e che tanti ricordano col sottotitolo dialettale: Quand che int la pôrta u j éra la rametta…
Se torno indietro con la memoria, fra tutta quella brava e buona gente
che abbiamo avuto attorno, il
personaggio che ancora mi fa sorridere è, sopre ogni altro, quello della Cišìra ‘d Mašàcia, all’anagrafe Cesira
Bellenghi.
Di questa anziana signora ho
raccontato molto e in più occasioni: simpatici aneddoti e battute a volte esilaranti, quali:
«…Da mĕ e tĕ, Chilĕñ, e’ prem ‘d nujétar
du che mùr... Mĕ a vëg in Canadà da la Maria Giovanna...»
Per comprendere il contesto della frase, e conoscere il caratteristico
personaggio, propongo qui la lettura di un mio breve brano.
La Cišìra, Pavlìñ e la Bajöca
(Brano tratto da A. Vandini, Gente Semplice – Quand che
int la pôrta u j éra la ramètta,
Faenza, Edit, 1994,
«Le “Case Operaie”», pp.38-40,
revisione dell’autore, 2021)
[…]In tutte le stagioni noi bambini avevamo compiti precisi: si andava a aqua alla più vicina pompa d’acqua
potabile coi secchi appesi al manubrio della bicicletta, si faceva erba per i
conigli, si portava la brôda al maiale e si andava regolarmente a prendere
in casa, d’inverno, i pulcini o gli anatroccoli appena nati, per farli stare al
caldo. Naturalmente non si doveva mai dimenticare di dar da mangiare alle
galline del serraglio prima che fosse buio e prima quindi che si ritirassero
nel pollaio.
A dire il vero, però, non tutti tenevano le galline al chiuso. Non la Cišìra ad esempio. Questa donna così
osservante in chiesa e così ordinata in casa, lasciava del tutto libere le sue
prosperose galline, e queste scorrazzavano tranquillamente, oltre la strada e
oltre la siepe, andando a nutrirsi nella vicina campagna, quella in cui il
tenace Pavlìñ aveva seminato il suo
grano.
Fu così che il contadino ferrarese non tardò a farsi sentire.
Giunse un giorno davanti a casa all'ora di pranzo e io fui immediatamente
richiamato dal vivace litigio che stava deflagrando sotto la mia finestra.
Il contadino e campanaro del prete, in bicicletta, con atteggiamento di
sfida ed un piede a terra, stava severo sulla strada dirimpetto a casa nostra e
si rivolgeva alla donna nel suo dialetto ferrarese:
«Vu a-v duvĕ tgnìr il galìn a ca’
vostra!» [Voi, le galline le dovete tenere a casa vostra!]...
La Cišìra, in piedi, pestando
avanti e indietro nel nostro cortile che era diviso dalla strada, e da Pavlìñ…, da un fosso profondo, furiosa e
rossa in viso, gridava la sua indignazione col dito puntato verso il più alto
dei cieli:
«A sì pröpi un scrianzê, vǒ….»
[Siete proprio uno screanzato, voi…] .
A questo punto il battibecco prese subito quota:
«A-l sö mì ch'a si andàda dal prèt
...» [So bene che vi siete lamentata col prete…]
«Sé! Parchè a sì pröpi un brǒt
umarĕñ, vǒ ... Ecco cus ch'a sì!» [Sì perché voi siete proprio una brutto ometto… Ecco
cosa siete…!]
«A sì vu 'na bruta dunìna ch'a si
'ndada dal prèt a dìr che mì a n m'inchin briša ‘bastanza davanti a l'altàr...»
[Siete voi una brutta donnina che siete andata dal prete a riferire che io
non m’inchino abbastanza davanti all’altare…]
«Sé, parchè la žént coma vǒ, la sta
bèñ int l'aldamér... » [Sì, perché la gente come voi sta bene nel letamaio…]
«No, invèzzi! Parchè mì, tut il
matìn, a pàs davanti a i Sant e agh dìgh: “Bongiorno a tuti!” E lór... I è a
pòst par tut al dì...» [Assolutamente no, invece! Perché io, tutte le
mattine, passo davanti ai nostri Santi e dico loro: “Buongiorno a
tutti!...” E loro sono a posto per tutto
il giorno…]
***
Un dialogo altrettanto memorabile avvenne poi fra la stessa Cišìra e la sua anziana cognata la Baiöca,
una donna di franchezza estrema che, a differenza della nostra vicina, non
aveva proprio alcun timor di Dio.
Essa venne un giorno in visita al fratello Chilĕñ, marito della Cišìra,
in quel momento infermo da giorni e molto sofferente di mal di cuore.
Presa da compassione per le condizioni del fratello, costretto a letto da
lungo tempo, ignorando la presenza della Cišìra,
si lasciò andare a modo suo:
«T'a t fé beh una brǒta vita veh
te... E’ Signór? U s véd pröpi ch'u n gn'è briša, parchè, s'u j fǒs, u n t
castigarĕb miga in sta manìra veh!...» [Ti stai facendo davvero
una brutta vita, tu… Il Signore? Evidentemente non c’è, perché se ci fosse, non
potrebbe castigarti in questo modo…]
A queste parole, anche stavolta, la pia Cišìra perdette le staffe:
«Fura sǒbit d'in ca’ mia! Vǒ pu, sti quĕl ch’è quĕ, in ca’ mia a n'i ‘gì
pröpi briša... Andì mo fùra d'in ca’!» [Fuori subito da casa mia!
Voi, queste cose, in casa mia non potete proprio dirle… Andate fuori subito
fuori…]
A quelle parole la pur pervicace Baiöca,
dovette adeguarsi:
«Me, fùra ai vègh parchè a sö in
ca’ vostra...» [Io fuori ci vado perché sono in casa vostra…], disse nell’avvicinarsi alla porta, poi, giunta sull’uscio, si voltò di
scatto e, tutto d'un fiato, decretò la sua sentenza:
«... Mo’ e’ Signor u n gn'è briša!...»[Ma il
Signore non c’è proprio…!]
Se ne andò poi sbuffando e imprecando, scendendo a due a due i pochi
scalini che conducevano al portone d’ingresso.
***
Chilĕñ, con buona pace delle due donne, fortunatamente si riprese, tanto che si
raccontò proprio nei giorni della sua guarigione, di un dialogo, poi divenuto
famoso in tutto il paesello, dialogo che stavolta avvenne fra moglie e marito.
La Cišìra, che, dietro i suoi
atteggiamenti battaglieri era una donna di cuore ed ancor più una tenera mamma,
sentiva molto la mancanza della figlia, maritatasi a guerra finita con un
ufficiale britannico e, a quel tempo, stabilita con la famiglia nel lontano Nord
America.
Fu così che un giorno si rivolse al marito in questi termini: «Oh… Da mĕ e tĕ, Chilĕñ, e’ prem ‘d nujétar
dù che mùr... Mĕ a vëg in Canadà da la Maria Giovanna...» [Senti,
Achille, appena muore qualcuno fra noi due… Io vado in Canada dalla Maria
Giovanna…]
Il povero Chilĕñ, a quelle vaticinanti
parole, pare si sia rabbuiato parecchio...
Cišìra, classe 1896, sposata
dal ’24, aveva avuto da Achille Ricci Maccarini, detto Chilĕñ, un influente capomastro della Cooperativa Muratori, due bravi
figlioli. Caparbia e premurosa era riuscita a farli studiare entrambi.
Il primo, Libero, molto impegnato fin da giovane nella Resistenza e
divenuto poi dirigente nella Cooperazione di Consumo, si era trasferito ben
presto con la famiglia ad Argenta; l’altra, Maria Giovanna, bella maestrina filese,
aveva sposato a Liberazione avvenuta Bonnar Briggs, distinto ufficiale scozzese
dell’esercito britannico seguendolo poi per il mondo..
Rimasta sola col marito, la Cišìra s'era ancor più stretta attorno alla sua devozione religiosa, con una assidua frequentazione della chiesa e delle funzioni, al pari delle sole suore e della fedelissima Vizinzóna,
[l’Annunziatina Bosi di cui ho già raccontato in questo blog].
Non mancava mai, perciò, ad alcuna celebrazione, festiva o feriale che fosse. Dotata
di discrete doti canore, la sua voce tremula e delicata si distingueva sempre,
dolce ed aggraziata, fra i banchi delle signore, durante le cerimonie più
solenni.
La qualità però che io, bimbo goloso e birichino, apprezzavo di più in
lei era l’incredibile sua attitudine alla preparazione di dolci e torte
paradisiache, fantasiose e variopinte, che riservava alle famiglie più facoltose
del paese. Non ebbi quindi mai il piacere di assaggiare neppure una di quelle favolose
opere d’arte… A me, tuttavia, bimbo piccolo dell’appartamento adiacente, spettava
il gradito compito di leccare i suoi magici tegami fino all’ultimo rimasuglio, in
particolare quello delle creme: un contenitore alto una ventina di cm, grigio
smaltato, più largo di tutto il mio braccio. Cesira sapeva bene che, col ditino
che governavo a mo’ di ventosa, avrei ripulito ogni spigolo e tirato a nuovo
ogni sua tègia incrostata fin quasi a
corroderne le pareti...
«A j ò purtê la tègia da lichê pr
e’ babĕñ…»[Ho portato il tegame da far leccare al bambino…] erano le parole della Cesira appena entrata in casa, in un’epoca in cui, fra
vicini, non s’usava neppure bussare alla porta. A quel segnale io ovviamente saltavo
giù dalla sedia, oppure interrompevo qualunque gioco o compito stessi facendo…
D’altronde i dolci preparati in famiglia a quel tempo erano ben pochi e
rari: il latte brulé a Natale e Pasqua,
oltre agli zuccherini di Sant’Agata, impastati in casa e fatti cuocere, su annerite
lamiere, al forno paesano …
Potevo poi saziare soltanto l’occhio quando la Cišìra qualche ora dopo veniva a mostrarci orgogliosa le sue torte ben guarnite, pronte per
la consegna. Erano vere e proprie creazioni artistiche. Mia madre, lì per lì, si
sperticava in complimenti, peraltro meritatissimi. Uscita la donna, però,
commentava:
«L’à beh dal curioši marcêd veh la Cišìra… La s pôrta sèmpar a fë da vdé stal bëli tórt par i sgnùr, mo' mai e pù mai che la s’in
fêga sintì un töc…» [Ha proprio degli strani atteggiamenti la Cesira… Ci
fa sempre vedere queste belle torte per i signori, ma mai e poi mai che ce ne faccia
sentire una sola fettina…]
A me comunque la donna stava molto simpatica perché, oltre a farmi
assaggiare i suoi gustosi avanzi di creme ed intrugli, mi permetteva di raccogliere
dal suo fico rigoglioso i frutti che pendevano all’interno del nostro serraglio.
Minore simpatia provavo invece per il burbero marito Chilĕñ che un giorno, stanco delle nostre marachelle, rincorse me e
Romeo e ci inchiodò contro la rete del suo orto. Ci fece poi un furioso buridòñ [rimprovero severissimo] di quelli, per essere chiari, da farsela nei pantaloni…
Invecchiando, e perso il marito nel ‘57, la Cesira venne sempre più
spesso in casa nostra, da lei considerata quasi un’estensione della propria.
L’accoglievamo sempre volentieri, con molta condiscendenza da parte di mia
madre per ogni ripetitiva lamentela. Ci leggeva quasi in lacrime le lettere della figlia ed io imparai a volerle bene, nonostante, per certe
sue insofferenze, fosse talvolta mal sopportata dai vicini.
In quegli anni, ormai divenuto un ragazzino, ebbi anche la ventura di
conoscere la famosa figlia Maria Giovanna e tutta la sua famiglia. Lei, il marito Bonnar e i figli John, Angela e
Paul, si trasferirono un giorno dal Nord America all’Inghilterra e, mentre le
loro masserizie attraversavano l’Atlantico via mare, fecero tappa in ’Italia giungendovi in aereo e alloggiando per diverse settimane nella natia Filo, presso mamma
Cesira.
Romeo era già in seminario, Luisa nel forno di Jàcum, ma io e Benny, che veniva spesso alle "case operaie",
diventammo gli amici preferiti di John, quasi nostro coetaneo; imparai qualche
filastrocca in inglese, conobbi papà Bonnar, giocai a lungo con la piccola e
simpatica Angela e tenni in braccio Paul, il bebè della casa. Le comunicazioni
avvenivano con facilità grazie al buon italiano che Maria Giovanna aveva saputo
trasmettere ai figlioli.
Tutta la combriccola tornò poi una seconda volta nel ’59 e fu, quella
vacanza, l’ultima a Filo di John e famiglia. Poco tempo dopo venne purtroppo meno
anche la buona Cesira, passata a miglior vita.
Davvero una bella famiglia, ci tengo a sottolinearlo, quella della
singolare vicina di casa. All’anziana signora vado talvolta con la memoria e
non manco mai di sorridere rievocando il personaggio che trovo ancora genuino,
verace quanto caparbio e pittoresco, in qualche modo tipico di quei tempi lontani.
Gruppo di famiglia
e di amici al matrimonio fra Maria Giovanna Ricci Maccarini e Bonnar Briggs,
ufficiale inglese. A sinistra si riconoscono: Achille (Chilĕñ) padre della sposa e al suo fianco Rina Rocchi. Sopra gli
sposi: Alessio (Lésio) e Agide (Gidìno) Mezzoli e Walma Gennari. Sulla
destra: mamma Cesira Bonora, Genoveffa Lolli. Accosciato sotto la sposa, Tullio
Rossi fra i bimbi Giovanna Mezzoli e Giorgio Rossi.
30 marzo 1947. L’atto di matrimonio a Filo fra Maria Giovanna Ricci
Maccarini e Bonnar Briggs
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Sopra: Anno 1959.
Da sinistra: Morena Coatti, Angela, Beniamino, Agide, John e Paul.
A fianco: Anno
1957. In piedi da sinistra, io, John, il cugino Renzino Ricci M., Angela che
guarda il piccolo Paul in carrozzina. Seduto a terra l’altro cugino di John, Gianni
R.M., davanti alla madre Ilde Gambetti.
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