Anni ’60 - La miracolosa guarigione
di una caviglia ‘sinistrata’
di Agide
Vandini
L’antica
figura della nostra ‘guaritrice’ viene sapientemente tratteggiata nell’approfondimento
a cura di Osiride Guerrini all’interno della rubrica «U
s druvéva una vôlta…». Il ‘pezzo’ dal titolo «Pignatĕñ
par livê un snèstar», prende spunto dal tradizionale ‘pentolino per
levare i sinistri’, oggi piccolo oggetto da museo (vedi a fianco) che «Lontano
dagli usi casalinghi, rimanda a qualcosa di magico, a pratiche alle quali per
generazioni non pochi hanno prestato fede».
«Livê un snèstar - ci ricorda l’autore - sta per 'levare un sinistro' e quel snèstar significa dolore, in particolare un dolore muscolare o una contrattura […]» Per malanni del genere: «[…] abbastanza singolare era il rimedio. Una pratica insolita per la quale si utilizzava un pentolino, un po' d'acqua, tre pagliuzze, tre spini e un pizzico di sale o di cenere; un rituale svolto da una donna con facoltà e poteri non comuni, una virtù: ‘la vartŏ’.
Stabilita la
diagnosi, ovvero, accertato che non si trattava di una frattura, «[…]
la storta veniva "segnata" dalla guaritrice… Allo scopo, per
alleviare il dolore e il fastidio, venivano pronunciate per tre mattine
consecutive parole incomprensibili, accompagnandole con segni e movimenti, [eseguendo]
talora il segno della croce sulla parte dolorante, ‘sgné par mandé' vi e' mêl’.
Soprattutto nelle frazioni rurali le guaritrici, stimate per la loro "arte
magica", godevano di un certo rispetto per essere portatrici di quel
particolare dono, ‘la vartŏ’, ereditata per essere "nate con la
camicia" (cioè avvolte nel sacco amniotico), o averla ricevuta da altre
guaritrici.
Pur
operando in segretezza con formule magiche personali, queste donne, quando
dovevano cedere il lascito a qualcuna che continuasse dopo di loro, la scelta
non era affidata al caso, ma a una persona degna. E il lascito si trametteva
nella mattina del solstizio d'inverno, una data di passaggio che rappresenta la
rigenerazione dopo la massima oscurità.
Le
segnature erano pratiche mal viste dalla Chiesa, ritenendo fossero reminiscenze
pagane o eretiche, ma erano "riti" che non avevano confini netti tra
paganesimo e cattolicesimo e si modellavano a seconda del contesto culturale
[…]».
Ho sempre
avuto un debole per queste simpatiche ed affascinanti figure femminili:
guaritrici, ‘strolghe’ e fattucchiere che in un’epoca ormai perduta e secondo
la mitologia popolare, curavano con le erbe oppure compivano riti o incantesimi.
Chi legge, o leggerà, i miei romanzi
ambientati nel nostro territorio e nei secoli passati si imbatterà talvolta in
personaggi del genere; su di loro un po’ mi sono documentato, un po’ ho
lavorato di fantasia, ricavandone macchiette veraci, scenette gustose come
quelle che ho inserito nel mio ultimo lavoro letterario «Ottocento Romagnolo»,
un romanzo già in via di distribuzione che presenterò a giorni su questo blog.
Quanto alle
guaritrici di casa nostra, non ho mai saputo di preciso se e come avessero ereditato
questa speciale «vartŏ»; si trattava di donne anziane che, ancora nel
dopoguerra, mettevano volentieri a disposizione del paesello il loro antico
‘sapere’. Si sentiva parlare all’epoca di qualche prodigio dovuto a rimedi
misteriosi, adottati dopo l’insuccesso di ogni affidabile risorsa della
medicina ‘ufficiale’.
***
All’estrema
soluzione di ricorrere alla ‘guaritrice’, pensò, nei primi anni ’60, l’amico e
compagno di squadra Appio Venieri, detto Tàpper.
Durante una
partita di campionato il combattivo mediano (che rivediamo più sotto in una
foto di quegli anni che ho sempre conservato), aveva preso un calcione
memorabile, un colpo che gli aveva gonfiato a dismisura una caviglia.
Filo – Campione Zonale CSI 1961-62.
In piedi: Trava (Silvano Brusi), Pirini (Ido Montanari), Ciuffettino (Roberto Zuffi), Tarapeñ (Gino Nanni), Tàpper (Appio Venieri), Lélo (Oliviero Pollini).
Accosciati: Nóce (Maurizio Cavallini), Perry (Agide Vandini), Uscarì (Oscar Pezzi), Pëcia (Giuliano Leoni) e Fabióñ (Silvio Filippi).
Nei giorni
post infortunio, il dolore e il gonfiore parevano proprio non volersene andare,
neppure dopo l’applicazione di pomate ed unguenti prescritti dal mitico Dutór Fiorentini.
Anzi… La caviglia sinistrata sembrava espandersi giorno dopo giorno, fino ad
assumere, nella forma come nel colore, quella di un melone maturo di media
grandezza.
Dagli amici
aveva talvolta sentito parlare di miracolose ciarê d’ôv che avevano
risolto e guarito tanti malanni, sicché il giovanotto, voglioso di rimettersi
presto in forma, decise di affidarsi alle cure della «Minghìna», alias
Domenica Martelli, l’anziana madre di Cichìno, noto barbiere
e socio inseparabile di Pippo ‘d Caprèt.
Donne che ‘segnavano
le storte’ in paese ce n’erano altre e di buona reputazione[2],
ma al ragazzo avevano parlato in termini lusinghieri proprio della Minghìna, una donna –
così ancora oggi, Tàpper la ricorda e la descrive –
buona d’animo, gentile, alta e piuttosto magra, accortamente vestita di scuro, dietro
l’immancabile grembiale, un volto pieno di rughe, avvolto dal tradizionale
fazzolettone annodato sotto la gola.
Andò al
consulto forse con qualche reticenza di troppo, tanto che parve quasi pentirsi
della scelta quando la donna, appreso che si trattava di un trauma in atto già
da qualche giorno, lo rimbrottò bruscamente:
«Avresti
dovuto venire subito, ragazzo mio… Non so se ce la faremo … I miei rimedi sono
efficaci sì, ma solo se posso metterli in opera subito, appena avuta la
‘botta’…»
Compiuti con
fare pensieroso alcuni passi avanti e indietro nella stanza, il nervosismo
della guaritrice, a poco a poco, e per fortuna, si placò.
L’anziana
donna si mise a bollire qualcosa, un guazzetto d’erbe e spezie misteriose, prese
a pronunciare a mezza bocca formule strane e parole incomprensibili, finché non
fece scendere, dal pentolino messo sul fuoco, una sostanza cremosa e viscida,
un liquido denso e odorante che, seguendo rituali antichi, applicò con circospezione
sul ‘melone’ giallognolo, quello che, vivaddio, andava sfiammato, svuotato e
sconfitto.
‘Segnata’
infine la caviglia come da prassi, mise quanto rimaneva della strana pozione in
un vasetto che consegnò al ragazzo con una premurosa esortazione:
«Mi
raccomando…» Disse. «Ungiti con questa crema tutti, e dico tutti, i prossimi Santi
giorni… Ogni mattina, e fino ad esaurimento del preparato, devi ripetere
l’operazione, poi… E poi, cosa vuoi che ti dica…. Speriamo bene che conti…»
Appio, a quel
punto, se ne tornò a casa pensieroso, ma, per non vanificare il lavoro accurato
della ‘Minghìna’ decise di seguire meticolosamente i consigli e le
raccomandazioni della donna. A poco a poco, e col passare dei giorni, il
gonfiore scemò finché, con sua gran meraviglia e soddisfazione, il ‘melone’ nel
giro di un paio di settimane ridiventò una caviglia, tanto da poter ben presto ritrovare
la strada del campo sportivo e colà poter riprendere a giocare a calcio con
noi.
«Si dica pure quel che si vuole…» Appio mi ha giusto ripetuto pochi giorni fa, davanti alla tabaccaia, quando abbiamo ricordato allegramente quei tempi lontani. «… Ma io devo tanta riconoscenza a quell’anziana donna… Perché, da quel giorno e dopo quella benedetta ‘segnatura’, io, con quella disastrata caviglia sono andato sempre liscio e non ho mai più avuto il benché minimo problema…»
La Minghìna (Domenica Martelli,1908-1993)
[Si ringraziano
gli amici e paesani: Beniamino Carlotti per il reperimento dei dati anagrafici, nonché Alfredo Gallerani e Rita Menegatti per le preziose segnalazioni]
[1] La Ludla (la
Favilla) – Periodico dell’Istituto Fredrich Scurr, Luglio-Agosto 2023, n.7-8,
p. 10.
[2] Fra
le guaritrici filesi (quĕli ch’al sgnéva agli artôrti…) cito
sommariamente: la Rumagna (Domenica Ravaglia, nonna materna di Franco ed
Ivana Belletti); la China (Francesca Feletti, mamma di Bruno Natali
detto Bëlöc’) e la Möra (Angela Tagliati, mamma di Nadalĕn Bolognesi).
2 commenti:
Guaritrici e medicina popolare.
Esoterismo, segnature ed antichi riti. In passato, quando non esistevano tutte le cure e i medicinali che ci sono oggi, anche nel nostro territorio, ci si affidava alla medicina popolare per curare i mali del corpo e spesso anche dell’anima. Generalmente guaritrici (ma anche qualche guaritore), provenienti dal mondo rurale e contadino, conoscitrici e portatrici di un sapere popolare, antico, anzi ancestrale, tramandato dalle loro madri, dalle suocere e nonne. Donne che di generazione in generazione, hanno portato attraverso gli anni, una luce antica che nemmeno loro sapevano da dove veniva, e quanto antica fosse. Di fatto, possiamo considerarle le prime mediche e anatomiste della storia, oltre che le prime farmacologhe, per la coltivazione e raccolta di piante e delle loro applicazioni medicinali . Erano le depositarie dei segreti della medicina empirica. E’ un mondo che sta scomparendo, un mondo che ancora per poco continua ad esistere parallelo al nostro, un mondo antico e prezioso di cui rimangono poche testimoni. Queste donne, ormai non trovano più eredi, non c’è più tempo per l’incanto per la suggestione , tanto meno per la magia di quel linguaggio rituale, semplice e meraviglioso, che sapeva curare con infusi, cataplasmi ed ancestrali riti pagani. Un’altra fetta di quell’arcaica civiltà contadina, che si è perduta per sempre.
Grazie Ben per il commento così puntuale e prezioso...
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