Cosa c’è da sapere intorno al Monumento dedicato ai nostri Caduti
di Agide
Vandini
(Il
monumento oggi - Foto Vandini, 2008)
A ricordo di quei momenti di 78 anni fa, disponiamo di un breve filmato girato dall’Armata liberatrice. Sono pochi fotogrammi in bianco e nero che ci mostrano il devastato centro del paese di Filo che sta per essere liberato dalle Forze Alleate, dopo la cruenta battaglia del giorno prima al Borgo Molino, battaglia a cui avevano partecipato anche i nostri partigiani. Sono immagini di Filo e del Ponte Bastia, immagini crude, desolanti, tuttavia rappresentative di ciò che rimaneva dell’abitato di Filo e di quante, e quanto gravi, furono le perdite, materiali ed umane, inferte alle comunità poste fra il fiume Reno e le Valli di Comacchio, a causa - va detto per rispetto della storia - della ferocia e delle mire insensate di una dittatura fascista succube dell’alleato nazista e di una monarchia vanagloriosa ed inetta.
Il
video d’epoca
Venerdì
scorso, come in ogni ricorrenza, i filesi hanno deposto, per mano del loro
primo Cittadino, fiori e corone in ognuno dei cippi che ricordano i loro Martiri
della Libertà, nonché davanti al pregevole Monumento ai Caduti che i cittadini
di Filo vollero erigere nel
decennale della Liberazione, nel
lontano 1955.
In fondo a queste righe posterò il breve
video della recente Cerimonia, ma, in questo contesto è forse bene ricordare, a beneficio
delle nuove generazioni, come e perché il nostro Monumento ai Caduti fu eretto,
a chi fu dedicato, di chi fu il disegno, chi fu l’autore delle pregevoli opere
che vi vennero inserite, chi lo realizzò e quali volevano essere i significati di
ogni elemento della composizione.
***
Nelle due foto, sul palco, il Sindaco Carlo Bolognesi ed una visione
panoramica della cerimonia.
Sotto il monumento e la piazzetta «Agida Cavalli» in una cartolina anni ‘50.
Come si
giunse alla realizzazione dell’opera ce lo raccontò bene Libero Ricci
Maccarini, uomo di spicco della cooperazione nel dopoguerra, in uno dei
capitoli del suo libro di memorie «Dal Palazzone», libro che viene riproposto
proprio in questi giorni in una nuova e documentata edizione[1].
Questi i
punti più interessanti sottolineati dall’autore (fra «virgolette» le citazioni
testuali).
Perché
erigere il Monumento
«Importava che si erigesse il monumento,
che fosse bello e, soprattutto, concepito in maniera da ricordare tutti i morti
[…]» Chi avesse visitato Filo doveva
farsi «…un’opinione vera del modo di essere di un paese che, forse senza
volerlo, ha trasfuso nel simbolismo e nel ricordo tante amarezze, nonché la
civile virtù di non dimenticare i propri morti…»
La
collocazione e la prospettiva
L’opera
monumentale non poté che essere collocata: «… nella piazzetta bassa e
disadorna, nascosta dalla Casa del Popolo, a ridosso di un fondale dalla
prospettazione mal definita […] Fu giocoforza per questo piantare e farvi
crescere una fila di pioppi siberiani, perché con l’alto fusto e il ventaglio
della ramificazione se ne ottenesse una verde barriera che potesse attenuare il
contrasto prodotto dal comporsi corretto dell’opera…»
L’assemblea pubblica - Progetto, artisti
ed esecutori dell’opera
Tutte le proprietà dell’opera «… vennero
illustrate in un’assemblea pubblica, quando fu il momento di porre mano ai
lavori, con l’ausilio di un modellino fornitoci dall’architetto Parolini e
disponendo secondo richiesta di tre bozzetti riproducenti il monolito e le due
figure scolpite da Angelo Biancini, fino a nutrire certezza che la complessità
rappresentativa corrispondeva all’onesto ricordo e all’interpretazione intima e
fedele della memoria voluta dai presenti.
Umanizzato in tale maniera l’apporto
degli artisti che avevano concorso alla creazione dell’opera, fu per mano di un
muratore locale, figlio di un vecchio sindacalista [2], che
il monumento prese corpo e venne a pronunciarsi nelle sue linee e nel significato
raggiunto, fino a fornire una coralità artistica ed espressiva qual è raro
riconoscere in attestati di eguale concezione rappresentativa […]
Cosi i filesi [sia di parte
ferrarese, sia di parte ravennate - n.d.A. -], associati nelle loro
cooperative che ne curarono le varie fasi della esecuzione, si fecero carico di
ogni onerosità».
I
tanti Caduti di ogni tempo e le croci senza nome
«…i Caduti da
ricordare erano veramente tanti, e nessuno poteva o doveva essere dimenticato.
Né
quelli della prima guerra mondiale, le cui madri e le vedove, ancora in
gramaglie, attendevano che si desse migliore memoria dei loro cari, più di
quanto non s’era preteso mostrare con la tardiva lapide attaccata in una
qualche maniera sul frontale delle “scuole nuove” [3];
né gli antifascisti percossi a morte ed i primi sindacalisti bastonati e
perseguitati fino alla loro eliminazione fisica;
né
i caduti disseminati in Africa e sui tanti fronti dell’ultima guerra, della cui
triste sorte restava solo l’ultima agghiacciante notizia recata dal solito
incolpevole carabiniere; né i caduti della Resistenza;
né,
infine, quanti furono travolti nelle proprie case, vittime di quegli eventi
bellici che, pure, dovevano riportare ai sopravvissuti il grande dono della
Liberazione.
I caduti
erano tanti, sì, e tante dovevano essere le croci senza nome, cui poter dare il
nome di ognuno, delineate dietro, sul muro nudo, elevato coi nostri mattoni
insabbiati e di color rosso dimesso, qual era quello delle nostre case…»
Elementi
di completamento
«Il marmo bugnato doveva riprendere,
anonimamente, l’asprezza dei monti d’ogni paese percorso controvoglia, e
l’arenaria del muraglione di destra e dei gradoni far ricordare il premere più
vicino delle colline amiche, che colsero l’ultimo momento di tre nostri
compagni, ora non più con noi a comporre le piccole e le grandi cose nelle
quali avevamo creduto insieme [4] […]
Veniva poi a completare l’assieme,
l’ampia gradinata, la vasca richiamante i maceri ora colmati senza pietà da un
mondo in grande cambiamento…» [5]
A questi elementi vanno aggiunti i tre
pennoni decorativi, ognuno dei quali - come ben si nota dalle immagini della
cerimonia inaugurale - dedicato ad un colore della nostra bandiera nazionale.
Lo scultore
Angelo Biancini è una delle figure più rappresentative della scultura e dell’arte ceramica italiana del Novecento.
Nato a Castel Bolognese nel 1911, a
diciott’anni si iscrive al Regio Istituto d’arte di Firenze dove frequenta lo
studio dello scultore Libero Andreotti. Si diploma nel 1934 nel III Corso della
sezione “scultura decorativa arte del legno” e ottiene in quegli anni i primi
riconoscimenti in mostre e rassegne d’arte di ambito locale, come il Premio
Rubicone a Rimini nel 1934.
Dal 1937 al 1940 si trasferisce alla
direzione artistica della Società Ceramica Italiana. Nel 1943 entra
all’Istituto d’arte della Ceramica di Faenza, e nel dopo guerra, subentra a
Domenico Rambelli nella cattedra di Plastica.
In quegli anni la figura di Biancini
emerge come una delle più autorevoli tra le nuove leve della scultura italiana.
Nel 1946 partecipa alla grande mostra
organizzata dalla Galleria della Spiga di Milano, ove poi le due personali del
1948 e del 1956 alla Galleria San Fedele lo impongono all’attenzione della
critica nazionale.
Tra le opere a carattere commemorativo
dello scultore e ceramista, si ricordano il Monumento alla Resistenza di
Alfonsine (1972) e i monumenti a Grazia Deledda a Cervia (1956) e a Don Minzoni
ad Argenta (1973). Nel 1973 gli viene riservata una sala personale nella
Collezione d’Arte Moderna Religiosa dei Musei Vaticani. Nel 1981 lascia
l’Istituto d’Arte di Faenza e continua a lavorare in uno studio nelle immediate
vicinanze della scuola. Muore il 3 gennaio 1988 [6].
Il
partigiano caduto
Qualcuno ne ha voluto considerare troppo marcata la configurazione
facciale e non proprio perfetto l’abbandono delle membra e del corpo, giacché
la vita si è spenta; si può nutrire rispetto all’altrui opinione, ma una cosa è
certa e conta ai fini della rappresentazione voluta: in Lui noi ci
riconosciamo!»
La madre piangente
«Ogni riserva poi scompare,
allorché lo sguardo si posa sulla figura materna, piangente e contrita, in quel
viluppo di pieghe che il grembiule, stretto con la cordella ai fianchi,
raccoglie nella mestizia della veste nera, quella che da sempre segna la
costante del lutto e il sacrificio dell’esistenza vissuta solo per la famiglia.
Quel disperato gesto delle
mani portate al volto, a nascondere un pianto che vuol invocare la sublimazione
della penitenza e, insieme, la compassione per lei, costretta a vivere quando
il senso dell’esistenza si è dissolto con la scomparsa del figlio: quel gesto,
sì, noi tutti lo comprendiamo bene…»
***
È intorno a questo simbolo
di Memoria e di Riconoscenza che i filesi di oggi, ogni 14 aprile ancora si
raccolgono, grati a chi sacrificò la propria vita per la Libertà e la
Democrazia, fieri delle loro radici, della loro storia e della loro identità.
Il video della recente Cerimonia
[1] Libero Ricci Maccarini, I racconti del «Palazzone» curati
da A. Vandini, Longastrino, CDS Edizioni, 2022, pp. 151-155. Il libro è
attualmente disponibile presso l’Editore, nonché presso le due edicole filesi.
[2] Trattasi di Paolo
Panizza (Péval), il cui padre era stato sindacalista e presidente della
Coop Muratori. Lavorò sotto la direzione di Barbieri Emanuele che a sua volta
collocò, sotto uno scalino del monumento, una dedica scritta ai caduti filesi
(testimonianza di Coatti Antonio, Tugnön).
[3] Per «scuole nuove»
devono intendersi le aule edificate all’epoca nel terreno oggi parco dell’ex
asilo, aule distrutte dai bombardamenti, così come la lapide commemorativa, il
cui testo andò perduto.
[4] I tre caduti partigiani
cui si fa cenno avevano combattuto sui monti di Romagna nelle fila della 36°
Brigata Garibaldi «A. Bianconcini» dando prova di grandissimo ardimento.
Caddero dapprima Ainis Trapani (Baröni) e Pietro Liverani (Pirì)
il 25 maggio del ‘44 sul Monte Carzolano, in terra toscana, oltre Palazzolo sul
Senio, poi, quasi cinque mesi dopo, il 18 ottobre, Mario Guerra (Mao),
ferito nella battaglia di Purocielo nell’Appennino faentino, catturato e
fucilato pochi giorni dopo dai fascisti al Poligono di tiro di Bologna.
[5] La vasca coi pesci
rossi, rimasta in funzione per alcuni anni, poco alla volta si interrò e non fu
ripristinata in occasione del restauro del monumento operato ad inizio secolo.
In quella occasione, fu eretto, a fianco dell’opera, un cippo commemorativo
dedicato al sacrificio di Agida Cavalli, madre e partigiana, cui è dedicata la
piazza.
[6] Ad Angelo Biancini,
alle diverse opere di cui ha fatto onore e dono al paese di Filo, ho già
dedicato un corposo articolo in questo stesso blog nell’ormai lontano 2009: http://filese.blogspot.com/2009/10/le-opere-filesi-del-maestro-angelo.html . Per una biografia
completa e per una rassegna delle opere più note dello scultore si possono consultare
anche: https://it.wikipedia.org/wiki/Angelo_Biancini e : https://www.angelobiancini.com/about