lunedì 21 agosto 2023

La Minghìna e il gran «melone» di Tàpper…

 

Anni ’60 - La miracolosa guarigione di una caviglia ‘sinistrata’

di Agide Vandini

 

 

 La storia miracolosa della caviglia di Tàpper m’è tornata in mente un paio di settimane fa, mentre leggevo un bell’articolo della Ludla dedicato alle mitiche guaritrici di un tempo[1].

L’antica figura della nostra ‘guaritrice’ viene sapientemente tratteggiata nell’approfondimento a cura di Osiride Guerrini all’interno della rubrica «U s druvéva una vôlta…». Il ‘pezzo’ dal titolo «Pignatĕñ par livê un snèstar», prende spunto dal tradizionale ‘pentolino per levare i sinistri’, oggi piccolo oggetto da museo (vedi a fianco) che «Lontano dagli usi casalinghi, rimanda a qualcosa di magico, a pratiche alle quali per generazioni non pochi hanno prestato fede».


«Livê un snèstar
- ci ricorda l’autore - sta per 'levare un sinistro' e quel snèstar significa dolore, in particolare un dolore muscolare o una contrattura […]» Per malanni del genere: «[…] abbastanza singolare era il rimedio. Una pratica insolita per la quale si utilizzava un pentolino, un po' d'acqua, tre pagliuzze, tre spini e un pizzico di sale o di cenere; un rituale svolto da una donna con facoltà e poteri non comuni, una virtù: ‘la vartŏ’.

Stabilita la diagnosi, ovvero, accertato che non si trattava di una frattura, «[…] la storta veniva "segnata" dalla guaritrice… Allo scopo, per alleviare il dolore e il fastidio, venivano pronunciate per tre mattine consecutive parole incomprensibili, accompagnandole con segni e movimenti, [eseguendo] talora il segno della croce sulla parte dolorante, ‘sgné par mandé' vi e' mêl’. Soprattutto nelle frazioni rurali le guaritrici, stimate per la loro "arte magica", godevano di un certo rispetto per essere portatrici di quel particolare dono, ‘la vartŏ’, ereditata per essere "nate con la camicia" (cioè avvolte nel sacco amniotico), o averla ricevuta da altre guaritrici.

Pur operando in segretezza con formule magiche personali, queste donne, quando dovevano cedere il lascito a qualcuna che continuasse dopo di loro, la scelta non era affidata al caso, ma a una persona degna. E il lascito si trametteva nella mattina del solstizio d'inverno, una data di passaggio che rappresenta la rigenerazione dopo la massima oscurità.

Le segnature erano pratiche mal viste dalla Chiesa, ritenendo fossero reminiscenze pagane o eretiche, ma erano "riti" che non avevano confini netti tra paganesimo e cattolicesimo e si modellavano a seconda del contesto culturale […]».

 

Ho sempre avuto un debole per queste simpatiche ed affascinanti figure femminili: guaritrici, ‘strolghe’ e fattucchiere che in un’epoca ormai perduta e secondo la mitologia popolare, curavano con le erbe oppure compivano riti o incantesimi.  Chi legge, o leggerà, i miei romanzi ambientati nel nostro territorio e nei secoli passati si imbatterà talvolta in personaggi del genere; su di loro un po’ mi sono documentato, un po’ ho lavorato di fantasia, ricavandone macchiette veraci, scenette gustose come quelle che ho inserito nel mio ultimo lavoro letterario «Ottocento Romagnolo», un romanzo già in via di distribuzione che presenterò a giorni su questo blog.

Quanto alle guaritrici di casa nostra, non ho mai saputo di preciso se e come avessero ereditato questa speciale «vartŏ»; si trattava di donne anziane che, ancora nel dopoguerra, mettevano volentieri a disposizione del paesello il loro antico ‘sapere’. Si sentiva parlare all’epoca di qualche prodigio dovuto a rimedi misteriosi, adottati dopo l’insuccesso di ogni affidabile risorsa della medicina ‘ufficiale’.

 

***

 

All’estrema soluzione di ricorrere alla ‘guaritrice’, pensò, nei primi anni ’60, l’amico e compagno di squadra Appio Venieri, detto Tàpper.

Durante una partita di campionato il combattivo mediano (che rivediamo più sotto in una foto di quegli anni che ho sempre conservato), aveva preso un calcione memorabile, un colpo che gli aveva gonfiato a dismisura una caviglia.

 

Filo – Campione Zonale CSI 1961-62.

In piedi: Trava (Silvano Brusi), Pirini (Ido Montanari), Ciuffettino (Roberto Zuffi), Tarapeñ (Gino Nanni), Tàpper (Appio Venieri), Lélo (Oliviero Pollini). Accosciati: Nóce (Maurizio Cavallini), Perry (Agide Vandini), Uscarì (Oscar Pezzi), Pëcia (Giuliano Leoni) e Fabióñ (Silvio Filippi).

 

Nei giorni post infortunio, il dolore e il gonfiore parevano proprio non volersene andare, neppure dopo l’applicazione di pomate ed unguenti prescritti dal mitico Dutór Fiorentini. Anzi… La caviglia sinistrata sembrava espandersi giorno dopo giorno, fino ad assumere, nella forma come nel colore, quella di un melone maturo di media grandezza.

Dagli amici aveva talvolta sentito parlare di miracolose ciarê d’ôv che avevano risolto e guarito tanti malanni, sicché il giovanotto, voglioso di rimettersi presto in forma, decise di affidarsi alle cure della «Minghìna», alias Domenica Martelli, l’anziana madre di Cichìno, noto barbiere e socio inseparabile di Pippo ‘d Caprèt.

Donne che ‘segnavano le storte’ in paese ce n’erano altre e di buona reputazione[2], ma al ragazzo avevano parlato in termini lusinghieri proprio della Minghìna, una donna – così ancora oggi, Tàpper la ricorda e la descrive – buona d’animo, gentile, alta e piuttosto magra, accortamente vestita di scuro, dietro l’immancabile grembiale, un volto pieno di rughe, avvolto dal tradizionale fazzolettone annodato sotto la gola.

Andò al consulto forse con qualche reticenza di troppo, tanto che parve quasi pentirsi della scelta quando la donna, appreso che si trattava di un trauma in atto già da qualche giorno, lo rimbrottò bruscamente:

«Avresti dovuto venire subito, ragazzo mio… Non so se ce la faremo … I miei rimedi sono efficaci sì, ma solo se posso metterli in opera subito, appena avuta la ‘botta’…»

Compiuti con fare pensieroso alcuni passi avanti e indietro nella stanza, il nervosismo della guaritrice, a poco a poco, e per fortuna, si placò.

L’anziana donna si mise a bollire qualcosa, un guazzetto d’erbe e spezie misteriose, prese a pronunciare a mezza bocca formule strane e parole incomprensibili, finché non fece scendere, dal pentolino messo sul fuoco, una sostanza cremosa e viscida, un liquido denso e odorante che, seguendo rituali antichi, applicò con circospezione sul ‘melone’ giallognolo, quello che, vivaddio, andava sfiammato, svuotato e sconfitto.

‘Segnata’ infine la caviglia come da prassi, mise quanto rimaneva della strana pozione in un vasetto che consegnò al ragazzo con una premurosa esortazione:

«Mi raccomando…» Disse. «Ungiti con questa crema tutti, e dico tutti, i prossimi Santi giorni… Ogni mattina, e fino ad esaurimento del preparato, devi ripetere l’operazione, poi… E poi, cosa vuoi che ti dica…. Speriamo bene che conti…»

Appio, a quel punto, se ne tornò a casa pensieroso, ma, per non vanificare il lavoro accurato della ‘Minghìna’ decise di seguire meticolosamente i consigli e le raccomandazioni della donna. A poco a poco, e col passare dei giorni, il gonfiore scemò finché, con sua gran meraviglia e soddisfazione, il ‘melone’ nel giro di un paio di settimane ridiventò una caviglia, tanto da poter ben presto ritrovare la strada del campo sportivo e colà poter riprendere a giocare a calcio con noi.

Nei mesi e negli anni che seguirono, il ragazzo, da grintoso mediano qual era, contrasti di gioco ne subì parecchi e, con essi, calci, calcetti e calcioni che gli provocarono lividi e piccoli infortuni a ginocchia, stinchi, all’altro piede, ma mai più… - Tàpper ci tiene a metterlo bene in chiaro anche oggi - mai più in quella famosa e sinistrata caviglia, quella del grosso ‘melone’ sapientemente sgonfiato dalla prodigiosa ‘segnatura della ‘Minghina’…


«Si dica pure quel che si vuole…» Appio mi ha giusto ripetuto pochi giorni fa, davanti alla tabaccaia, quando abbiamo ricordato allegramente quei tempi lontani. «… Ma io devo tanta riconoscenza a quell’anziana donna… Perché, da quel giorno e dopo quella benedetta ‘segnatura’, io, con quella disastrata caviglia sono andato sempre liscio e non ho mai più avuto il benché minimo problema…»

 

La Minghìna (Domenica Martelli,1908-1993)


[Si ringraziano gli amici e paesani: Beniamino Carlotti per il reperimento dei dati anagrafici, nonché Alfredo Gallerani e Rita Menegatti per le preziose segnalazioni]


[1] La Ludla (la Favilla) – Periodico dell’Istituto Fredrich Scurr, Luglio-Agosto 2023, n.7-8, p. 10.

[2] Fra le guaritrici filesi (quĕli ch’al sgnéva agli artôrti…) cito sommariamente: la Rumagna (Domenica Ravaglia, nonna materna di Franco ed Ivana Belletti); la China (Francesca Feletti, mamma di Bruno Natali detto Bëlöc’) e la Möra (Angela Tagliati, mamma di Nadalĕn Bolognesi).