venerdì 21 maggio 2021

Visita scolastica alla vecchia fornace. Molino di Filo, anno 1961

Un Quaderno dell’Irôla dedicato alla Mostra fotografica del 2007

di Agide Vandini

 

 

Nel luglio del 2007, nell’ambito di “Filo è festa”, curai assieme ai miei familiari Diana e Giovanni, questa  rassegna di fotografie dedicata alla vecchia fornace del Molino di Filo e ad un prezioso reportage scolastico di mezzo secolo fa.

Lo stabilimento, come sappiamo, dopo gli anni ‘60 fu notevolmente modificato per ammodernamenti e finì  per essere totalmente abbattuto e ricostruito un paio di decenni dopo.

Il “corpo” della mostra era in pratica fornito da un album fotografico raccolto nel lontano 1961 dalle nostre scuole elementari e gelosamente conservato dalla famiglia del maestro Ezechia Vistoli.

Erano foto scattate dagli alunni e dal loro insegnante con una modesta Komet II, una macchinetta a quei tempi assai popolare. Le immagini, non sempre nitide, erano poi state corredate dai ragazzi di note, nonché di interessanti impressioni suscitate dall’ampio «mondo del mattone».

Una simile preziosa serie di testimonianze del passato, consigliò, ai fini della rassegna, la trascrizione tal quale di testi e didascalie, con pochissime integrazioni; vi si apportarono appena una necessaria introduzione ed un commento finale, con l’aggiunta di qualche ulteriore immagine d’epoca. 

Oggi, come 14 anni fa, quella rassegna di foto e di testi permette la piacevole rivisitazione del vecchio stabilimento, prima che fosse cancellato dal progresso e dalle nuove tecnologie. Scorrendo le pagine dell’album colpiscono in particolare alcuni aspetti di quella ricerca scolastica: l’accuratezza della visita, la completezza del racconto per immagini, il lodevole intento educativo del maestro, l’attenzione al territorio, la diligenza e lo spiccato interesse dei ragazzi verso il complesso ciclo produttivo, le puntuali annotazioni che riflettevano, con sincerità e realismo, le condizioni di vita e di lavoro del tempo.

Ricordo con piacere la grande emozione suscitata dalla mostra del 2007 negli anziani fornaciai incuriositi dall’inattesa rassegna.

Nel rivivere le immagini di tanti anni prima, nel rivedere, così com’era, l'antica fabbrica basata su processi in gran parte  manuali, sotto il tendone della mostra fluiva immediato e spontaneo in molti anziani il ricordo delle loro fatiche, della grande cura, attenzione e forza fisica che all’epoca veniva loro richiesta in ogni reparto.

Quanta emozione…

Assieme agli occhi sfavillanti di vecchi fuochisti, carrelliste, lavoranti e scariolanti,  al fluire sempre più fitto di aneddoti e ricordi lontani, nei giorni della mostra pareva riecheggiare di nuovo il «su e giù» dei cigolanti carretti colmi d'argilla e riprendere vita modesti e rudimentali attrezzi, i visi ed i sorrisi dei compagni di lavoro di un tempo, gran parte dei quali già lasciati per strada.

A tratti, dietro le pareti dei pannelli, pareva udirsi ancora il sibilo prolungato della sirena, quel suono deciso e quasi solenne disperso nel tempo, eppure ancora tanto presente nel cuore dei filesi. Quell’ululato così caratteristico, negli anni del dopoguerra, ci raggiungeva più volte al giorno in ogni borgata sparsa del paese, intenso e inesorabile,  e scandiva pressoché in ogni casa i ritmi di vita degli abitanti.

Era un grande orologio, insomma, con lancette sonore che regolavano tempi ed abitudini di ognuno di noi. A mezzodì e al tramonto, la sirena dla furnéša pareva avere note persino festose nell’annunciare il desiderato ritorno a casa di un nostro familiare, sia pure per una breve e fuggevole pausa, o per qualche ora di meritato riposo.

 

Credo e mi auguro che le immagini di questa mostra, a mezzo secolo di distanza dalla meritevole visita dei ragazzi di «Zachìa», possano risultare ancora gradite a coloro che hanno a cuore luoghi, persone, simboli della nostra memoria e quel grande patrimonio di valori ed esperienze di cui sono testimonianza.

Come per tutti i Quaderni dell’Irôla pubblicati in precedenza, la visualizzazione ed anche il download del file sono di libero accesso, sicché, chi lo desidera, può stampare, fascicolare e conservare su carta ed a proprio piacimento, tutta la preziosa Mostra[1].

 

Il link per l’accesso al nuovo file.pdf  è il seguente:

 https://drive.google.com/file/d/1McG0lj11pWKOmmVnTHof1cdvoWYdJyt8/view?usp=sharing



 



[1] A commento della Mostra 2007 è presente sul blog (settembre 2007), il mio articolo a suo tempo scritto per Gentes-Alfonsine, suppl. mens."sabato sera" Bassa Romagna n. 10, settembre 2007, p. 20.


sabato 15 maggio 2021

Il gioco del Beccaccino, «principe di Romagna»

 Perché si chiama così? Da quanto tempo si gioca?

di Guido Tarozzi

Presentazione di Agide Vandini

 

 

Una dozzina d’anni fa dedicai, su questo blog, un bell’articolo, molto dettagliato, al gioco di carte più amato dai romagnoli. Aveva per titolo: «E’ tempo di Tressette … - Trisët, Bëcacino (o Marafõ) e i suoi derivati in Romagna (Per chi volesse leggerlo, questo è il link per l’accesso diretto:

 

        http://filese.blogspot.com/2009/12/e-tempo-di-tressette.html

 

Guido Tarozzi, nuovo amico dell’«Irôla» che scrive per «Il Romagnolo», dopo averlo letto, mi ha mandato queste stuzzicanti e divertenti note che potrebbero toglierci qualche ulteriore curiosità. O forse no?... Lo si saprà soltanto dopo averlo letto… (a.v.)

 

° ° °



 Questa mia ricerca avrebbe l’ambizione di chiarire, una volta per tutte, perché il gioco “nazionale” della Romagna viene chiamato Marafõ (nel forlivese) e Bëcacino (nel ravennate), nonché in quale secolo si è iniziato a giocarlo. 

 I cultori e gli studiosi di tradizioni romagnole e dei giochi popolari delle carte in Romagna hanno cercato di rispondere a questi interrogativi, ma con risultati poco soddisfacenti. Io ci provo, sbarazzandomi dei soliti «si dice», «sembra», ecc, e cercando di basarmi su prove documentate e testimonianza dirette.

 Gli amici di San Varano / Vecchiazzano non me ne vogliano se io contesto, in parte, quanto hanno scritto, nella lapide in ceramica affissa nel 1995 nella facciata della loro Banca:

 

Qui, in San Varano, vuolsi prendesse vita

ai primi del 1800, il marafò o beccaccino,

gioco principe, della gente di Romagna,

invenzione democratica, nella terra degli uguali,

giocato da Galantoman,

con le sole tre parole rituali: bòss, stréss, vòl.

 

Se dovessimo prestare fede alla targa suddetta, beh, già l’incipit non appare troppo convincente: vuolsi, si presume, forse... 

Per mettere un po' d’ordine, partirei dalla consultazione dei vocabolari Romagnolo-Italiano di Antonio Morri[1], pubblicato nel 1840, e quello di Antonio Mattioli[2], pubblicato nel 1879. Si tratta di dizionari destinati “a soccorrere quei romagnoli che abbisognano di conoscere l’equivalente italiano del vocabolo in dialetto”. Questi testi riportano soltanto i termini Primiera, Trisett (Tresette), Brescula (Briscola) e Creca (Cricca), senza alcun riferimento al Marafõ / Bëcacino… Sembrerebbe quindi che, almeno a Faenza, a metà dell’Ottocento i giochi più diffusi fossero il Tresette, la Briscola e la Primiera[3].

Il primo a pubblicare nel 1975 uno studio, direi scientifico, sul gioco più amato dai romagnoli fu il faentino Alteo Dolcini, storico e pubblicista, che cercò di dare una risposta esaustiva agli interrogativi già posti. Intervistò alcuni abitanti della bassa provincia ravennate, altri dei paesi della vallata del Montone, del Savio, del Senio e del Santerno, cercando di ottenere risposte univoche. Nessuno però fornì soluzioni soddisfacenti, suffragate da fonti certe.   

Altri appassionati cultori di questo gioco tradizionale hanno scritto del Marafõ / Bêcacino spiegando dettagliatamente le regole del gioco (vedi Pino Melandri e Tarcisio del Gardo), ma non hanno affrontato, se non sommariamente, l’intricata matassa delle origini e del significato del termine. Se poi andiamo a sentire i pareri di due autentiche autorità nel campo del dialetto romagnolo, quali Libero Ercolani[4] e Friedrich Shurr[5] l’interrogativo si ingarbuglia ulteriormente.

Il primo, nel suo vocabolario, alla voce Marafòn ci dice che può essere “uno stampo da caccia, per appostamento in valle, costruito con erba palustre o uno zimbello di paglia, oppure, in alternativa,  un gioco che si fa con le carte romagnole”. Lo studioso Friedrich Schurr, invece, sostiene che potrebbe trattarsi di un gioco nato nell’ambito dei cacciatori. A suo dire “il beccaccino” oppure il “marafone - zimbello” potrebbero essere stati la posta in gioco fra cacciatori”.

Nel 2014, lo stesso maestro Libero Ercolani, in una sua lettera ad Alteo Dolcini, ritornando sull’argomento, dichiarava che il termine Marafõ potrebbe essere associato all’omonima voce dialettale ottocentesca “arraffone, furbacchione, imbroglione, astuto”. A tale riguardo l’ingegnere e scrittore Umberto Maioli, nato a Ravenna nel 1878, in “Ravenna e le sue piccole memorie” definisce un certo Michele Salter, veneziano, appaltatore di lavori pubblici con fama di arraffone: «uno di quelli che in gergo di affari vengono chiamati marafoni».

Fatte queste considerazioni sul significato dei due termini, resterebbe ora da stabilire l’epoca di diffusione del gioco in Romagna.

All’inizio del gennaio 1920 uscì la rivista La Pié di Forlì [6] e uno degli articoli di quel primo numero fu dedicato a “Il gioco delle carte in Romagna”. L’autore vi sosteneva che il più praticato nei circoli di campagna, nelle cameracce, nei trebbi, nelle osterie, nelle stalle, era il cosiddetto malèt [7] mentre il gioco d’azzardo più diffuso era žughê a tajê (bassetta)[8].

  Poco più tardi, nel 1924, a Ravenna, fu pubblicato un libretto di una cinquantina di pagine sui giochi di carte più popolari in Romagna. In esso furono menzionati una quindicina di giochi con l’indicazione delle le rispettive regole di base. ll Beccaccino alias Marafõ, alias Trisët cun e’ taj, come lo chiamano nel lughese, alias Piròc’ nel cervese oppure infine, Trionfo nel ferrarese, nel libretto viene totalmente ignorato.       

  Libero Ercolani, cui si è già accennato in precedenza, ricorda invece che nel 1873 il nonno materno frequentava la “Camarazza” di S. Pietro in Vincoli, ritrovo dei repubblicani, “quelli buoni, intransigenti, cioè contrari alla collaborazione con il governo del re” ove si giocava già a Marafõ, (non Beccaccino, naturalmente, perché qui gravitiamo sul forlivese: tutte le Ville Unite per questo lo chiamano Marafõ; bisogna passare il Ronco per sentirlo chiamare Beccaccino).

Quanto alla passione diffusa ed all’accanimento profuso in questo gioco negli anni più recenti, posso testimoniarne per esperienza diretta.


A partire dagli anni ‘70, del nuovo secolo, la Società del Passatore di Faenza iniziò ad organizzare Tornei di Beccaccino nei Circoli cosiddetti “dei Signori”, nelle città-sorelle romagnole. A questi tornei partecipai in diverse occasioni e debbo dire, senza tema di smentita, che i “galantǒman” (citati nella lapide di San Varano) spesso si comportavano  da Marafoni (nel significato anzi detto).

Gli organizzatori faentini si accorsero ben presto che le coppie più affiatate, spesso vincenti, riuscivano a farsi dei “segni” convenzionali (sarebbe troppo lungo spiegare le molte “malizie” possibili); essi ritennero quindi necessario collocare sul tavolo, di traverso, un “paravento” mobile, in compensato, con una apertura in basso ove venivano calate le carte, in modo che i giocatori di ogni coppia non si potessero vedere; ma i “galantǒman” continuarono ugualmente a farsi dei segni con le mani ricorrendo a sotterfugi ancora più sofisticati.

Gli instancabili e volenterosi organizzatori applicarono allora, ai paravento, degli appositi scivoli per la carta che poi slittava sul tavolo; a quel punto il gioco era ormai completamente snaturato, non era più un divertimento… Molti, e io fra questi, smisero di partecipare, sicché gli organizzatori ad un certo punto si arresero.

Questo, in fede mia, è quanto succedeva a fine Novecento nei Tornei “ufficiali” del Passatore e nessuno mi smentirà. Del resto, per quel che ne so, ora nel territorio ravennate si organizzano solo tornei di Briscola ove il gioco stesso permette, segni, ammiccamenti, insomma tutto.

Tornando alla targa di San Varano, essa ci ricorda che si tratta di un gioco «democratico» e questo è proprio vero, poiché chi siede al tavolo da gioco, sa che deve spogliarsi di ogni titolo professionale ed onorifico (dottore, avvocato, presidente, o cavaliere che sia…), diventando un “uguale”, un uomo libero, quasi al di sopra di ogni convenzione, ovvero: né proletario, né borghese, né capitalista. 

Sicuramente, come recita la lapide, il Marafõ - Bêcacino è da molto tempo il gioco principe della “Nazione Romagna”, gioco nel quale il romagnolo esprime molte sue caratteristiche: cocciuto, caparbio, arrogante, determinato e, allo stesso tempo, anche entusiasta. Egli alza la voce facilmente, sia per arrabbiarsi, sia per offendere, anche se in alcuni posti le parole «somaro» e «pataca» da tempo non sono più ritenute offensive. Altrettanto fa per gioire e compiacersi, ma si sa il romagnolo per carattere tende in politica e nel gioco ad estremizzare tutte le situazioni e... ad accendersi. 

 Anche nelle partite al bar, nei Circoli e nei Bagni al mare, dove ci si disputa, tuttalpiù, la bevuta analcolica e le partite si giocano con spirito alquanto goliardico, i galantǒman sono assai lesti nel colpire, specialmente nella fase concitata della fine della “mano”.

In quel momento gli animi diventano esagitati, le discussioni infinite e l’attenzione latita: chiamare un punto in più, in quegli attimi, può capitare (ad esempio se una coppia fa 5 punti e 2 figure, cosa sarà mai chiamare 6 punti: l’avversario disattento e concitato potrebbe cascarci…). Non a caso si è fatto largo un singolare modo di dire: “rubare un punto nella chiamata è da ladro, rubare una figura (tre figure sono un punto) l’è da galantǒman”. 

In conclusione, forse anch’io non sono riuscito a sciogliere ogni dubbio. Ho dedicato molto tempo alla ricerca di fonti certe, ma ho trovato anch’io, in molti casi, soltanto dei “si dice...”.

In ogni caso tuttavia, grazie alle ricerche di Dolcini, mi par di capire che qui nel ravennate, nel lughese e nel faentino si è iniziato a giocare il Beccaccino solo nel XX secolo.



[1] Noto studioso faentino di tradizioni popolari, letterato, glottologo, insegnante di belle lettere.

[2] Militare ed uomo politico di Castelbolognese.

[3] A meno che il gioco del Marafõ-Bëcacino, ovvero il Tressette con le briscole, all’epoca del Morri non fosse ancora nato il che pare potersi escludere. Al riguardo, avendo studiato a fondo quel vocabolario per una ricerca del gergo furbesco e maliziosi dei muratori, mi sento di affermare che il suo autore, era  ben addentro al linguaggio popolare dei romagnoli ed in particolare dei faentini.

[4] Dialettologo di Bastia di Ravenna, autore del vocabolario Romagnolo-Italiano pubblicato nel 1960.

[5] Famoso glottologo viennese ed emerito studioso del romagnolo.

[6] Rivista dedicata alla ricerca culturale e alle tradizioni popolari romagnole, diretta da Aldo Spallicci.

[7] Gioco per 4 partecipanti con 36 carte, diverso dal Tressette.

[8] Basti ricordare i versi di Olindo Guerrini nel celebre sonetto «Gita di piacere»:  « E int e’ mèntar ch’asptemia da magnê / Sovra la tavulaza dl’ustarì, / Sissignora, a zughesum a tajê…» [E mentre aspettavamo da mangiare /Sul tavolaccio dell’osteria / Sissignora, giocammo a «bassetta»…]

domenica 9 maggio 2021

Quell’avventuroso volo su San Bernardino…

Mongolfiere ottocentesche sui cieli di Romagna(2)

di Agide Vandini

 


Malgrado la tragica fine toccata al pioniere del volo Francesco Zambeccari, negli anni successivi  al 1812 l’entusiasmo per le mongolfiere continuò a contagiare i bolognesi di ogni classe sociale fino a divenire una sorta d’intrattenimento scientifico.

Le imprese nei cieli compiute dal marchesino avevano dato coraggio a tanti amanti del brivido che durante il secolo tentarono, con alterne fortune, di emularlo. 

Le cronache ci riferiscono di Antonio Marcheselli e poi di Francesco Orlandi, fino allo spernacchiato Muzio Muzzi, e alla «macchina» di sua invenzione (vedi a lato), nonché alle spericolate Elisa Otway e madame Poitevin[1].

E’ comunque sul secondo coraggioso aeronauta che noi ci soffermeremo.

Francesco Orlandi compì infatti parecchi voli  tra il 1825 e il 1849 ed è proprio lui l’«aerobata» finito sopra i cieli di San Bernardino, una vicenda che è stata compiutamente raccontata da Guido Tarozzi qualche anno fa per la rivista «Il Ponte»[2]. Dal suo testo, di cui mi ha fatto gentile dono, cercherò di estrarre alcuni brani essenziali.

 


«Di lassù, da due miglia di altezza, non riesco a vedere nulla, le nuvole bianche mi nascondono la visuale del territorio, sopra di me il cielo è sereno e brillante; galleggio nell’aria verso levante da poco più di un’ora, fra poco dovrò decidermi ad iniziare la manovra di discesa, non vorrei imitare il mio maestro che cadde in mare al largo del lido di Magnavacca, ripescato poi da provvidenziali pescatori…

Ero assorto in questi pensieri quando avvertii uno strappo, poi un altro più violento e... nove minuti dopo presi terra, sano e salvo, in un filare di viti, in territorio ferrarese[3], a Bellaria, nel Comune di Massa Lombarda, vicino al fiume Santerno…»

 E’ con queste parole del protagonista che inizia l’interessante racconto di Guido Tarozzi.  E’ una vicenda, quella  dell’aeronauta Francesco Orlandi disceso dai cieli di San Bernardino, che ha permesso al ricercatore di darsi finalmente spiegazione di una strana, quanto misteriosa, iscrizione rivenuta da ragazzo nelle campagne di casa.

Racconta Tarozzi:  «In una delle nostre solite scorribande nella campagna a ridosso del fiume Santerno, in località Bellaria, ci eravamo  inoltrati clandestinamente in un podere. I contadini, come si sa, non volevano intrusi nei loro poderi neppure dai ragazzini e noi, con grande sorpresa, trovammo in un filare, tra due viti, un pilastro slabbrato con una lapide marmorea, insolfata, scritta in latino.

Riuscimmo a leggervi: … Franciscus Orlandius, aerobates…. La scoperta, ci apparve sorprendente e ci incuriosì. Alcuni studenti universitari del posto, trent’anni dopo, tradussero la lapide e scoprirono, nella biblioteca di Bologna, un opuscolo, che parlava di un atterraggio rocambolesco avvenuto, mercoledì 7 settembre 1825, in località Bellaria, vicino alla via per Conselice:  “Il 7 settembre 1825 / Francesco Orlandi / aeronauta bolognese / salito alle ore 1 e 50 pomeridiane / sul suo pallone volante / nella città di Bologna / giunto a grande altezza / qui prese terra dopo 2 ore esatte[4]…»


Spiegata così la scritta del pilastrino, Tarozzi riprende l’emozionante testimonianza dell’aeronauta ai suoi primi voli[5]: «Ero partito da Piazza d’Armi in Bologna alle 13 e 50, salutato da una folla entusiasta ed esultante, mi sentivo sicuro; la lampada a spirito, era stata da me modificata in modo che non potesse assolutamente creare i problemi che aveva procurato ad altri, purtroppo deceduti, inoltre disponevo di un paracadute da me inventato unito alla mongolfiera che mi rendeva tranquillo.

[…] mentre salivo, tenevo  d’occhio gli strumenti di bordo: uno stratoscopio, una bussola, un barometro, un termometro ed un orologio; provai i remi e la vela di trinchetto ed ebbi un buon riscontro, attraversai lo strato di nuvole bianche e mi trovai nel cielo sereno e brillante, moderai al minimo l’intensità della lampada, la Macchina continuava a salire, guardai il barometro e constatai che la pressione stava diminuendo.

Il barometro continuava a scendere, era giunto al minimo corrispondente ad una altezza di due miglia, ed anche la temperatura scendeva (- 5). Alle 15 e 36 sentii piccole e ripetute scosse accompagnate da un debole strepitio dovuto, secondo me, al dilatarsi dell’idrogeno nel pallone; smorzai subito la lampada e aprii la manica collegata al pallone per scaricare idrogeno, ma era già tardi, il rumore diventò uno strappo violento, lo stratoscopio indicò subito una veloce discesa; immediatamente vuotai la lampada dall’alcool e gettai i sacchetti di sabbia che avevo portato come zavorra, la velocità di discesa diminuì, la Macchina forò lo strato di nubi e vidi apparire la terra sotto di me, lasciai cadere la lunga fune dell’ancora; ritenevo di essere ancora alto di molti piedi quando invece la navicella fortunosamente inciampò, in successione, in due alti e robusti pioppi che ammortizzarono la maggior parte dell’urto. La discesa era durata 9 minuti, uscii sano e salvo dalla navicella…»



°°°

«Le dichiarazioni rilasciate dall’Orlandi  - conclude Tarozzi -   indicanti in 9 minuti il tempo di discesa, inducono a ritenere che la Macchina sia scesa ad una velocità media di 20/25 km all’ora e che il paracadute abbia funzionato bene; lo prova il fatto che l’aeronauta è uscito dalla navicella illeso da oltre 3 km di altezza!!!  

Quella sera al Teatro della Commedia di Bologna, affollatissimo, tutti aspettavano notizie dell’«aerobata»; alle 22, Francesco Orlandi si presentò a teatro…

Aveva percorso in mongolfiera le 35 miglia da Bologna a Bellaria in due ore circa; per ritornare a Bologna col calesse o carrozza, messi a disposizione dal nobile del luogo, conte Trotti, occorsero sicuramente non meno di 5 ore…»  


 °°°

A degna conclusione di queste note, non resta che abbandonarsi alla classica e scherzosa battuta finale, ovvero: se in Romagna abbiamo avuto un eroe nazionale dell’aria come Francesco Baracca … e se a Filo oggi abbiamo un campo di volo di discreto livello, oltre ad un certo numero di instancabili aviatori e navigatori dell’aria[6], vuoi vedere che quei pionieri ottocenteschi sulle mongolfiere a spasso per i nostri cieli, dal Zambeccari all’Orlandi,  hanno lasciato il segno...

 (2 – fine)

°°°

Il gentile Luigi Pertegato ha pubblicato sui FB in «Sei di Filo se…»  alcune foto del cippo che ricorda l’ottocentesco avvenimento aeronautico. Come segnalato da Guido Tarozzi, il cippo è  ora collocato lungo la nuova Via Bastia, all’incrocio con la Carrara Fortuna, a poca distanza quindi dalla località «Bellaria» ove atterrò la mongolfiera. Riporto doverosamente le tre foto con la mia trascrizione delle due lapidi (a.v., 9.5.21).

 







 

Trascrizione delle due Lapidi:

 Testo in latino: A . MDCCCXXV . / VII . ID . SEPTEMBR.  FRANCISCUS .ORLANDIUS . / DOMO . BONONIA . / AEROBATES / QUUM . HORA . A. MERIDIE .  PRIMA / ET . MINUTIS . QUINQUAGINTA / BONONIAE . PEGMA . SUUM . CONSCENDISSET / SUBLIME . VECTUS . / POST . HORAS . DUAS . IPSAS . / HEIC . TERRAM . REPETIIT /

 Testo  in  italiano:  Il 7 settembre 1825 / Francesco Orlandi / Aeronauta bolognese / Salito alle ore 1 e 50 minuti pomeridiane / sul suo pallone volante / nella città di Bologna / Giunto a grande altezza / Qui prese terra dopo due ore esatte / - - -  /Affinché il ricordo e la gloria si conservino / Gli amici della «Lume» ripristinarono / S. Bernardino 7.9.1986 /

P.S: Riguardo alla «LUME» associazione sanbernardinese ora disciolta, ricevo da  Guido Tarozzi e pubblico volentieri:

Negli anni 80 venne costituita una associazione fra un gruppo di amici, compresi tutti quelli che si erano allontanati dal  per motivi di lavoro dal paese. Ci trovavamo al venerdì sera, spesso, per mangiare, cantare, giocare a carte e fare....casino. La sede era in una casa vuota nel paese. Siccome si diceva che facevamo troppo rumore i soci decisero una iniziativa di culturale per il paese e ristrutturarono la nota lapide, spostandola sulla via Basta. Il nome deriva, come la tua Iròla, dal nostro mondo rurale: il lume delle nostre famiglie contadine (ante servizio elettrico)[.. .]


[1] Il concittadino Antonio Marcheselli volò con successo  nel 1813, mentre Muzio Muzzi, ambizioso meccanico bolognese, ideò l’aeronave  chiamata “rettiremiga”, con due grandi ruote ai lati della navicella. Nel 1838 in un vasto prato fuori Porta San Donato, Muzzi fece costruire un grande anfiteatro e due torri di legno più alte della Garisenda a cui appendere la sua «macchina». Non dovette riscuotere molto successo se a Bologna si disse per anni che «Al vularà, quand al žigant al cantarà…».Il 30 aprile 1868 i bolognesi poterono invece assistere al volo di una mongolfiera alzatasi da piazza Maggiore con un equipaggio tutto al femminile. Nella cesta c’erano lady Elisa Otway, una bizzarra dama inglese che viveva a Bologna, appassionata delle immersioni negli abissi e delle ascese tra le nuvole, e madame Poitevin, una francese amante degli sport estremi.

[2] Guido Tarozzi scrive per la rivista «Il Romagnolo», mensile di storia e tradizioni della provincia romagnola. Alcuni suoi scritti sono visibili e scaricabili a questo link: www.tarozziguido.blogspot.com

[3] L’autore ricorda doverosamente come il territorio che oggi fa parte del comune di Lugo e della provincia di Ravenna, all’epoca (1825) facesse parte del comune di Massalombarda e della provincia Ferrarese.

[4] Il pilastro, restaurato, fu poi spostato sulla nuova Via Bastia, incrocio Carrara Fortuna. Gli anziani bellariesi tramandavano, al riguardo, che si trattava di un francese , equivocando sicuramente sul nome Franciscus...      

[5] Vi si tralasciano, per la scorrevolezza del racconto, le note tecniche attribuite all’amico Prandi.

[6] Per chi voglia godersi, dalla sua seggiola,  un volo in deltaplano sulle nostre campagne suggerisco questo link:

https://www.youtube.com/watch?v=N-vIyHXD3tk ; agli interessati al nostro campo di volo suggerisco inoltre quelli che seguono:https://www.club-italy.it/index.php?page=tour/detail&id=920,, http://www.ulm.it/hangar/campi/scheda1.htm?chiave=294&, https://www.facebook.com/alifilanti.campovolo 

martedì 4 maggio 2021

Quel matto di Zambeccari…

 Mongolfiere ottocentesche sui cieli di Romagna(1)

di Agide Vandini

 


In questi giorni ho potuto leggermi il racconto di Guido Tarozzi dal titolo Francesco Orlandi, l’aerobata: una storia interessante che ci porta al tempo lontano delle mongolfiere, ispirata dal ritrovamento di una lapide ottocentesca davvero  misteriosa, una curiosa vicenda romagnola di cui racconterò nella 2° parte.

E’ un tema stuzzicante, quello dei pionieri dell’aria, che ci riporta alla grande passione per i voli aerostatici diffusasi in Europa sul finire del XVIII secolo, passione che attecchì in particolare nella città di Bologna. Qui, fra i suoi primi e più conosciuti protagonisti, ci fu un ardente scavezzacollo, uno spirito ribelle di nobile stirpe, amante del rischio e dell’avventura, la cui famiglia aveva chiari legami col nostro territorio.

Questo degno esponente del "secolo dei lumi", inventore ed aeronauta, si chiamava Francesco Zambeccari ed era figlio del Marchese Giacomo, senatore bolognese e proprietario di importanti terreni e valli nella nostra Riviera di Filo[1] .

Volle il destino che, proprio sopra le estese proprietà di famiglia, dovesse un giorno volare l’ingegnoso aeronauta, nel corso di un paio di imprese avventurose che fecero, all’epoca, grandissimo clamore.

Oggi, quello di Francesco Zambeccari è un nome assai famoso: pioniere dell’aria fra i più celebrati, importante protagonista della storia dell'aerostatica d’ogni tempo e Paese, tanto che le sue gesta ed emozionanti peripezie devono essere qui riportate con un minimo di completezza.

Nato a Bologna nel 1752, egli viene descritto come un giovane dalla testa calda, insofferente alle regole della nobiltà, incline all’esplorazione e all’avventura.  Dopo una rigida istruzione ricevuta nel Collegio dei Nobili di Parma, egli si arruola nella marina spagnola.

Impegnato dapprima nella lotta ai pirati nel Mediterraneo, poi nella difesa dei domini d'oltremare, negli anni della rivoluzione americana il futuro aeronauta si mette però in contrasto con la Santa Inquisizione ed è costretto a lasciare L'Avana. Si trasferisce prima a Parigi, poi a Londra all’epoca dei primi esperimenti di volo col pallone e viene in contatto coi fratelli Montgolfier.

Il 25 novembre del 1783 Francesco Zambeccari lancia dal Moorfields Artillery Ground un modello di pallone aerostatico  del diametro di circa tre metri. Quel pallone rimane in volo per oltre due ore ed atterra intatto presso Graffam, a circa 75 chilometri di distanza. L’anno successivo, il 15 aprile, Zambeccari  incanta Venezia col volo di una  mongolfiera alla punta della Salute. L’ evento viene immortalato da Francesco Guardi in un dipinto oggi conservato alla Gemäldegalerie di Berlino (vedi immagine a fianco).

La passione per gli aerostati a Bologna si diffonde a tal punto  che persino un frate e maestro di novizi, tale padre Giovanni Maria Romaironi, il 27 febbraio 1784 si leva in volo dal chiostro della chiesa di San Giacomo Maggiore e la sua «macchina» raggiunge l’altezza di settanta metri «Fra lo stupore e il compiacimento universali»[2].

Il 22 marzo 1785 l’impavido Zambeccari, in compagnia dell’ammiraglio Vernon, s’alza imperiosamente in volo nel cielo di Londra superando i 3000 metri di quota.

Sono però anche anni che preannunciano grandi sconvolgimenti. Il vento rivoluzionario sta per attraversare  la Francia e l’intera Europa, sicché l’ardimentoso Marchesino trova il modo di lanciarsi in altre rischiose avventure. Nel 1787 s’arruola nella Marina  russa, partecipa alla guerra contro l’Impero Ottomano e finisce prigioniero a Costantinopoli per oltre due anni. Durante la prigionia ha modo di  approfondire i suoi studi sul volo e sulle macchine aerostatiche.

 Messo in libertà grazie all’intercessione del re di Spagna, torna a Bologna. Nella città natale si sposa contro la volontà del padre[3], dopo di che si dedica a nuovi studi sul volo aerostatico che lo portano ad impegnarsi in altri esperimenti in Italia e in Inghilterra.

Nella notte tra il 7 e l’8 ottobre 1803, organizza il lungo volo che lo vede partire, assieme a due suoi allievi, dalla Montagnola di Bologna[4]. Il pallone, a doppia camera secondo una tecnica di sua creazione[5], sale ad alta quota, vola nel buio per i cieli di Romagna e raggiunge una quota tanto elevata da congelare gli abiti dei passeggeri e da far loro perdere conoscenza. I tre si ritrovano inconsapevolmente naufraghi nelle acque dell’Adriatico. Riavuta rapida coscienza, essi riprendono quota per poi scendere precipitosamente in mare nei pressi della costa istriana. Lì sono tratti in salvo da una barca di pescatori.

La disavventura non dissuade però l’intrepido marchese che, recuperato il pallone finito in Bosnia e rimesso a punto il suo cesto volante, l’anno successivo ritenta l’impresa partendo stavolta dalla collina di San Michele in Bosco.

Quella volta riesce a portare l’aerostato sopra Piazza Maggiore e Porta San Mamolo sostandovi a lungo fra lo stupore e l’ammirazione di circa cinquantamila cittadini ivi radunati. Anche in questo caso, però, non tutto va per il verso giusto: la manovra di atterraggio incontra impreviste difficoltà. Mentre il compagno di volo riesce a scendere, il marchese viene riportato rapidamente in quota. Il pallone sorvola di nuovo le nostre campagne, prosegue fino al delta del Po e lì atterra in qualche modo nei pressi di Comacchio.

Otto anni dopo, Francesco Zambeccari ormai sessantenne e giunto al terzo volo spettacolare, incontra, ahimè, il suo tragico appuntamento col destino. Il 21 settembre 1812, subito dopo il decollo, la sua mongolfiera urta violentemente un albero, il fornello ad alcool si rovescia sul pilota e prende fuoco. Per l’aeronauta  non c’è scampo. Muore il giorno dopo per le ustioni riportate.

A quanto si racconta, le avventurose imprese aeronautiche di Francesco Zambeccari avrebbero provocato la quasi totale rovina della sua famiglia, costretta forse per questo a cedere le ricche proprietà fondiarie nella Riviera del Primaro. Tuttavia la storia del volo umano nei cieli d’Europa parla ancora oggi di lui, delle vicende del nuovo Icaro, del grande «pioniere dell’aria» e ci si inchina  con immutato stupore di fronte all’inventiva singolare del marchesino e al suo indomito coraggio [6].

 

 

(1 – continua)

 

 

 



[1] La casa Zambeccari aveva acquisito alcune proprietà fondiarie dai Signori Grelli Danzi di Argenta nel 1745. L’odierna Via Tamerischi di Filo nel XVIII secolo era per questo chiamata «Strada Massari detta l’Argine Zambeccari». Dei Marchesi e Fratelli Zambeccari ho pubblicato integralmente un Esposto «informale» di fine ‘700 alla R.C.A reclamante l’uso delle acque del Canale di Filo [A.V., Filo la nostra terra, Faenza, Edit, 2004, pp. 349-350].

[2]  * Guida ai misteri e segreti dell’Emilia Romagna, Como, Sugar Edizioni, 1987, p.  134.

[3] Sposò Diamante Negrini da cui ebbe tre figli. Uno di questi, Livio, ebbe un importante ruolo nel Risorgimento italiano.

[4] Pare che, proprio  in quell’occasione sia preso un colpo all’amico Carlo Mondini che trepidava per la sua incolumità: Questo il racconto che se ne fece in seguito: […] Francesco Zambeccari dopo gli studi e i viaggi fatti, prese la risoluzione di aggirarsi per gli spazi celesti col favore di un proporzionato macchinamento, e dirigersi per l'aria come per l'immensa superficie del mare il pilota regola il suo naviglio. Non perdonò egli né a spese né a fatiche, né a veglie né a prove per condurre ad effetto il concepito disegno. Tutto andò a seconda de' suoi desiderii. La molteplice suppellettile occorrente all'uopo fu trasportata entro un vastissimo steccato eretto ne' pubblici giardini, luogo dato a quello spettacolo. E fu intimato che quando dall'avanzamento de' lavori conosciuta si fosse la vicinanza del tempo del volo, ne avrebbero dato segnale al pubblico gli strepiti delle artiglierie. Ma il Mondini, che amava teneramente lo Zambeccari, conoscendolo di un cuore risolutissimo, e credendo, che un tanto ardimento gli costerebbe la vita, era oppresso dalle angustie, tremava e palpitavagli il cuore. Giunte le cose al punto bramato del volatore, diedesi il promesso annunzio. E nello stesso momento in cui udissi il rimbombo del primo colpo, nel medesimo il Mondini cadde apoplettico"[Mirtide Gavelli]

[5] Il pallone a doppia camera rappresenta la più straordinaria realizzazione di Zambeccari: un'idea talmente in anticipo sui tempi che si dovette attendere la seconda metà del XX secolo per vederne la compiuta realizzazione. Zambeccari espose per la prima volta il suo progetto in una lettera inviata al padre da Londra il 28 novembre 1783, una settimana appena dopo il primo volo umano della storia. Il pallone a doppia camera, o "aeromongolfiera", consisteva in due involucri separati, uno superiore riempito con idrogeno e uno inferiore gonfiato con aria riscaldata per mezzo di un braciere. In questo modo non era più necessario gettare zavorra per salire, o liberare gas per scendere.