Perché si chiama così?
Da quanto tempo si gioca?
di Guido Tarozzi
Presentazione di Agide Vandini
Una dozzina d’anni fa
dedicai, su questo blog, un bell’articolo, molto dettagliato, al gioco di carte
più amato dai romagnoli. Aveva per titolo: «E’
tempo di Tressette … - Trisët,
Bëcacino (o Marafõ) e i suoi derivati in Romagna (Per chi volesse leggerlo,
questo è il link per l’accesso diretto:
http://filese.blogspot.com/2009/12/e-tempo-di-tressette.html
Guido Tarozzi, nuovo amico
dell’«Irôla» che scrive per «Il Romagnolo», dopo averlo letto, mi ha mandato
queste stuzzicanti e divertenti note che potrebbero toglierci qualche ulteriore
curiosità. O forse no?... Lo si saprà soltanto dopo averlo letto… (a.v.)
° ° °
Questa mia ricerca avrebbe l’ambizione di
chiarire, una volta per tutte, perché il gioco “nazionale” della Romagna viene
chiamato Marafõ (nel forlivese) e Bëcacino (nel ravennate), nonché in
quale secolo si è iniziato a giocarlo.
I cultori e gli studiosi di tradizioni
romagnole e dei giochi popolari delle carte in Romagna hanno cercato di
rispondere a questi interrogativi, ma con risultati poco soddisfacenti. Io ci
provo, sbarazzandomi dei soliti «si dice», «sembra», ecc, e cercando di basarmi
su prove documentate e testimonianza dirette.
Gli amici di San Varano / Vecchiazzano non me
ne vogliano se io contesto, in parte, quanto hanno scritto, nella lapide in
ceramica affissa nel 1995 nella facciata della loro Banca:
Qui,
in San Varano, vuolsi prendesse vita
ai
primi del 1800, il marafò o beccaccino,
gioco
principe, della gente di Romagna,
invenzione
democratica, nella terra degli uguali,
giocato
da Galantoman,
con
le sole tre parole rituali: bòss, stréss, vòl.
Se dovessimo prestare fede alla targa
suddetta, beh, già l’incipit non appare troppo convincente: vuolsi, si presume, forse...
Per mettere un po' d’ordine, partirei dalla
consultazione dei vocabolari Romagnolo-Italiano di Antonio Morri,
pubblicato nel 1840, e quello di Antonio Mattioli,
pubblicato nel 1879. Si tratta di dizionari destinati “a soccorrere quei romagnoli che abbisognano di conoscere l’equivalente
italiano del vocabolo in dialetto”. Questi testi riportano soltanto i
termini Primiera, Trisett (Tresette), Brescula (Briscola) e Creca
(Cricca), senza alcun riferimento al Marafõ
/ Bëcacino… Sembrerebbe quindi che,
almeno a Faenza, a metà dell’Ottocento i giochi più diffusi fossero il
Tresette, la Briscola e la Primiera.
Il primo a pubblicare nel 1975 uno
studio, direi scientifico, sul gioco più amato dai romagnoli fu il faentino
Alteo Dolcini, storico e pubblicista, che cercò di dare una risposta esaustiva
agli interrogativi già posti. Intervistò alcuni abitanti della bassa provincia
ravennate, altri dei paesi della vallata del Montone, del Savio, del Senio e
del Santerno, cercando di ottenere risposte univoche. Nessuno però fornì
soluzioni soddisfacenti, suffragate da fonti certe.
Altri appassionati cultori di questo
gioco tradizionale hanno scritto del Marafõ
/ Bêcacino spiegando dettagliatamente le regole del gioco (vedi Pino
Melandri e Tarcisio del Gardo), ma non hanno affrontato, se non sommariamente,
l’intricata matassa delle origini e del significato del termine. Se poi andiamo
a sentire i pareri di due autentiche autorità nel campo del dialetto romagnolo,
quali Libero Ercolani
e Friedrich Shurr
l’interrogativo si ingarbuglia ulteriormente.
Il primo, nel suo vocabolario, alla
voce Marafòn ci dice che può essere
“uno stampo da caccia, per appostamento in valle, costruito con erba palustre o
uno zimbello di paglia, oppure, in alternativa,
un gioco che si fa con le carte romagnole”. Lo studioso Friedrich
Schurr, invece, sostiene che potrebbe trattarsi di un gioco nato nell’ambito
dei cacciatori. A suo dire “il beccaccino” oppure il “marafone - zimbello” potrebbero
essere stati la posta in gioco fra cacciatori”.
Nel 2014, lo stesso maestro Libero
Ercolani, in una sua lettera ad Alteo Dolcini, ritornando sull’argomento,
dichiarava che il termine Marafõ
potrebbe essere associato all’omonima voce dialettale ottocentesca “arraffone,
furbacchione, imbroglione, astuto”. A tale riguardo l’ingegnere e scrittore
Umberto Maioli, nato a Ravenna nel 1878, in “Ravenna e le sue piccole memorie” definisce
un certo Michele Salter, veneziano, appaltatore di lavori pubblici con fama di
arraffone: «uno di quelli che in gergo di affari vengono chiamati marafoni».
Fatte queste considerazioni sul
significato dei due termini, resterebbe ora da stabilire l’epoca di diffusione
del gioco in Romagna.
All’inizio del gennaio 1920 uscì la rivista
La Pié di Forlì e uno
degli articoli di quel primo numero fu dedicato a “Il gioco delle carte in
Romagna”. L’autore vi sosteneva che il più praticato nei circoli di campagna,
nelle cameracce, nei trebbi, nelle osterie, nelle stalle, era il cosiddetto malèt
mentre il gioco d’azzardo più diffuso era žughê
a tajê (bassetta).
Poco più tardi, nel 1924, a Ravenna, fu pubblicato un libretto di una
cinquantina di pagine sui giochi di carte più popolari in Romagna. In esso furono
menzionati una quindicina di giochi con l’indicazione delle le rispettive regole
di base. ll Beccaccino alias Marafõ, alias Trisët cun e’ taj, come lo chiamano nel lughese, alias Piròc’ nel cervese oppure infine, Trionfo nel ferrarese, nel libretto viene
totalmente ignorato.
Libero Ercolani, cui si è già accennato in precedenza, ricorda invece
che nel 1873 il nonno materno frequentava la “Camarazza” di S. Pietro in
Vincoli, ritrovo dei repubblicani, “quelli buoni, intransigenti, cioè contrari
alla collaborazione con il governo del re” ove si giocava già a Marafõ, (non Beccaccino, naturalmente, perché qui gravitiamo sul forlivese:
tutte le Ville Unite per questo lo chiamano Marafõ;
bisogna passare il Ronco per sentirlo chiamare Beccaccino).
Quanto alla passione diffusa ed
all’accanimento profuso in questo gioco negli anni più recenti, posso
testimoniarne per esperienza diretta.
A partire dagli anni ‘70, del nuovo
secolo, la Società del Passatore di Faenza iniziò ad organizzare Tornei di Beccaccino nei Circoli cosiddetti “dei
Signori”, nelle città-sorelle romagnole. A questi tornei partecipai in diverse
occasioni e debbo dire, senza tema di smentita, che i “galantǒman” (citati nella lapide di San Varano) spesso si
comportavano da Marafoni (nel significato anzi detto).
Gli organizzatori faentini si accorsero
ben presto che le coppie più affiatate, spesso vincenti, riuscivano a farsi dei
“segni” convenzionali (sarebbe troppo lungo spiegare le molte “malizie”
possibili); essi ritennero quindi necessario collocare sul tavolo, di traverso,
un “paravento” mobile, in compensato, con una apertura in basso ove venivano
calate le carte, in modo che i giocatori di ogni coppia non si potessero vedere;
ma i “galantǒman” continuarono ugualmente
a farsi dei segni con le mani ricorrendo a sotterfugi ancora più sofisticati.
Gli instancabili e volenterosi
organizzatori applicarono allora, ai paravento, degli appositi scivoli per la
carta che poi slittava sul tavolo; a quel punto il gioco era ormai completamente
snaturato, non era più un divertimento… Molti, e io fra questi, smisero di
partecipare, sicché gli organizzatori ad un certo punto si arresero.
Questo, in fede mia, è quanto
succedeva a fine Novecento nei Tornei “ufficiali” del Passatore e nessuno mi
smentirà. Del resto, per quel che ne so, ora nel territorio ravennate si
organizzano solo tornei di Briscola ove il gioco stesso permette, segni,
ammiccamenti, insomma tutto.
Tornando alla targa di San Varano,
essa ci ricorda che si tratta di un gioco «democratico» e questo è proprio
vero, poiché chi siede al tavolo da gioco, sa che deve spogliarsi di ogni titolo
professionale ed onorifico (dottore, avvocato, presidente, o cavaliere che sia…),
diventando un “uguale”, un uomo libero, quasi al di sopra di ogni convenzione,
ovvero: né proletario, né borghese, né capitalista.
Sicuramente, come recita la lapide, il
Marafõ - Bêcacino è da molto tempo il
gioco principe della “Nazione Romagna”, gioco nel quale il romagnolo esprime molte
sue caratteristiche: cocciuto, caparbio, arrogante, determinato e, allo stesso
tempo, anche entusiasta. Egli alza la voce facilmente, sia per arrabbiarsi, sia
per offendere, anche se in alcuni posti le parole «somaro» e «pataca» da tempo non
sono più ritenute offensive. Altrettanto fa per gioire e compiacersi, ma si sa
il romagnolo per carattere tende in politica e nel gioco ad estremizzare tutte
le situazioni e... ad accendersi.
Anche nelle partite al bar, nei Circoli e nei
Bagni al mare, dove ci si disputa, tuttalpiù, la bevuta analcolica e le partite
si giocano con spirito alquanto goliardico, i galantǒman sono assai lesti nel colpire, specialmente nella fase
concitata della fine della “mano”.
In quel momento gli animi diventano
esagitati, le discussioni infinite e l’attenzione latita: chiamare un punto in
più, in quegli attimi, può capitare (ad esempio se una coppia fa 5 punti e 2
figure, cosa sarà mai chiamare 6 punti: l’avversario disattento e concitato
potrebbe cascarci…). Non a caso si è fatto largo un singolare modo di dire:
“rubare un punto nella chiamata è da ladro, rubare una figura (tre figure sono
un punto) l’è da galantǒman”.
In conclusione, forse anch’io non sono
riuscito a sciogliere ogni dubbio. Ho dedicato molto tempo alla ricerca di
fonti certe, ma ho trovato anch’io, in molti casi, soltanto dei “si dice...”.
In ogni caso tuttavia, grazie alle
ricerche di Dolcini, mi par di capire che qui nel ravennate, nel lughese e nel
faentino si è iniziato a giocare il Beccaccino
solo nel XX secolo.