Vecchi giochi e baracconi delle nostre sagre
di Agide Vandini
Sta per terminare il
mese di settembre e con esso le più importanti e tradizionali fiere del
territorio circostante, quelle quanto meno che ancora non sono state soppiantate
dal nostro moderno modo di vivere e di divertirci.
E’ lo spunto per ricordare, con un filo di nostalgia, qualche
vecchio gioco da baraccone di cui si è persa memoria, soprattutto in piccoli
paesi come il mio, ove un tempo, per la sagra della patrona Sant’Agata, le
strade ed i prati del borgo maggiore venivano ricoperti di bancarelle,
banchetti e giostre di ogni genere, per la gioia delle tante persone di ogni
età che vi accorrevano, in particolare nel pomeriggio del giorno di festa.
Se ineludibile era
l’acquisto, per ogni bambino di casa, di un fischietto rosso di zucchero e di
una palla di segatura con l’elastico, l’attenzione maggiore veniva rivolta ad
ogni tipo di divertimento proposto nell’occasione, sfilando davanti a giochi e
baracche da luna park, ma non solo.
Fra questi
divertimenti voglio ricordarne qualcuno, oggi fra i più insoliti o in parte dimenticati.
La bëla palutìna
A questo gioco
d’azzardo, per quanto lo si sapesse una iattura per gonzi, molti non sapevano
resistere. Fin da metà mattina si mettevano davanti al chiassoso ciarlatano e
non staccavano mai gli occhi dal suo tavolino.
Di solito, a
praticare questo gioco truffaldino, erano un paio di astuti comacchiesi. Si attestavano
lungo la rampa che dà verso la chiesa, più o meno all’altezza della vecchia fontana dell’acqua
potabile. I curiosi seguivano la pallina con lo sguardo e i più sicuri di sé prima
o poi decidevano di puntare una banconota da mille. Lo facevano sulla
campanella ove pareva finita la piccola pallina nera, delle dimensioni di un
granello di pepe. L'uomo dietro il banchetto appariva persino maldestro, tanto
che uno dei giocatori di continuava a vincere e ad incassar soldi. Ovviamente
si trattava di una collaudata messinscena che permetteva ai due compari di
spillare qualche banconota al pollastrello di turno.
«La bëla palutìna l’è chéi… L’è léi… - ripeteva a iosa il
comacchiese - Adës in duv èla šgònd a
tĕi?…» [La
bella pallina è qui… è lì... Ora dov’è finita secondo te?...]
Davanti alle puntate
del vero scommettitore, però, la pallina non veniva mai infilata sotto la
campanella. Essa restava incollata al pollice inumidito del banditore e da lì
veniva poi fatta scivolare sotto una delle altre campanelle e mostrata
all’incauto frescone al momento di incassare la scommessa.
I dadi
del marinaio
Sul tavolo da gioco erano
raffigurati i sei simboli, ciascuno circoscritto in apposito riquadro, come si
può vedere sul panno verde della figura a fianco.
Similmente al gioco
della roulette gli scommettitori puntavano sui simboli preferiti, mettendo le
loro monete all'interno del riquadro prescelto.
Quando la ragazza del
Banco riteneva chiuse le scommesse, lanciava i tre dadi dopo averli fatti
sobbalzare a lungo all’interno di una sorta di corno in pelle. Ai simboli
vincenti pagava la posta ed incassava le puntate di tutti gli altri. Se il
simbolo usciva due volte, il giocatore riceveva
il doppio della posta, o il triplo se compariva in tutti e tre i dadi
lanciati.
Se ad esempio il
Banco otteneva dai dadi due segni di Cuori ed uno di Ancorina, pagava
una volta quest’ultima, e due volte i primi. Il resto delle scommesse sul
tavolo era suo.
Il vantaggio del
Banco era dunque assai alto, trattandosi di probabilità vicina all'8% (7.8703%),
mentre alla Roulette tale valore rimane al di sotto del 3%[1].
Tiro al
bersaglio
Era quasi sempre
gestito da una donna un po’ provocante, ritenuta
cioè in grado di attrarre maschietti giovani, vogliosi di sparare qualche colpo
e, soprattutto, intenzionati ad attaccar bottone per poi vantarsi di chissà
quali prospettive di conquista nella vicina osteria.
Capitava talvolta in
paese anche il tirassegno fotografico e lì le tasche spesso si svuotavano per
mirare al pulsante al centro di una piastra d’acciaio, nella speranza di far
esplodere la schiera di lampade al magnesio ivi predisposte. Il lampo
improvviso, fra gridolini di meraviglia, immortalava il tiratore e lo stuolo di
accompagnatori attorno a lui, sempre in posa e in attesa del ciac abbagliante
e fatale.
[Foto tratta dall'album di famiglia, a lungo
conservata da mio padre nel portafogli e da me restaurata per l’occasione]. |
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Autoscontro
e autopista
Nei momenti di punta
e di grande ressa, nonostante la durata di ogni giro fosse via via ridotta, non
si riusciva a quasi salire su uno di quei bolidi. Per evitare litigi, oppure per
non stare in eterna attesa a bordo pista, bisognava far segni inequivocabili a
qualche amico già nell’arena affinché, una volta finiti i cartoncini acquistati,
si fermasse con la macchinina proprio lì nei pressi. Se non si avevano le
giuste conoscenze si restava a lungo impalati ed inoperosi come baccalà. Il
divertimento comunque, una volta saliti a bordo, era assicurato e i colpi dati
e ricevuti di fronte ad un così alto
numero di ragazzi e ragazze, uno spasso da ricordare per tutto l’anno.
Pozzo (o muro) della morte
Non l’avessi mai
fatto!
Già durante i
preparativi che si svolgevano sotto di noi, non riuscivo quasi a credere
possibile quanto annunciavano i cartelloni. Non riuscivo a capacitarmi di una
moto così veloce da vincere la forza di gravità e girare in circolo
parallela a terra.
Quando poi cominciai
a percepire sotto di me lo sconquasso provocato dalle moto a velocità pazzesca
fra doghe traballanti che ad ogni
istante parevano andare in frantumi,
ebbi davvero la sensazione che i poveri centauri che saettavano in tondo
sfiorando il mio parapetto, avessero i minuti contati ed andassero incontro ad
una disgrazia imminente.
Non avevo mai temuto
così tanto per la vita di un mio simile.
In quei minuti
palpitanti non ebbi neppure il tempo di spaventarmi. Osservavo come
inebetito quelle corse indiavolate fra le vibrazioni dell’ampio e profondo pozzo
di legno che, cigolando e scricchiolando, pareva quasi inclinarsi, per poi risistemarsi
e raddrizzarsi in un baleno. Rimasi inchiodato lì, quasi incredulo, in attesa
che quel finimondo potesse avere termine.
Non mi è più capitata
l’occasione di entrare in un simile inferno, ma posso garantire in tutta
tranquillità che nessuno, neppure un diavolo in persona, sarebbe mai riuscito, anche
con la forza, a spingermi dentro ad un baraccone ed a uno spettacolo del genere.
Nemmeno per tutto l’oro
del mondo…
3 commenti:
Lušór, soprannome di Mario Mezzoli, figlio di Raffaele (1891-1959)e di Pasqua Minguzzi (La Fiuchétà 1895-1985, nasce a Filo il 7 Gennaio 1914 nel Palazzone. Sposa l'11 Aprile 1939 Adelma Checcoli e nel dopoguerra si trasferisce con famiglia a Longastrino, ove ne è deceduto alcuni anni fa. Interessanti sono le sue ascendenze, Raffaele Mezzoli era figlio di Dante (1866-1946) e di Maria Morelli (1872-1912), Dante era figlio di Raffaele (1891-1959) e di Dathiva Farabulini (1831-1910), sorella di Monsignor David e di Don Adriano, due illistri, ma purtroppo sconosciuti compaesani, che sicuramente meriterebbero varie pagine di questo blog.
Chiedo scusa ai lettori e ad Agide, ma devo apportare una "Errata corrige" al mio precedebte commento. Anzichè "Dante era figlio di Raffaele (1891-1959)", andava riportato : Dante era figlio di Raffaele (1843-1872).
Inserirò nome e cognome di Lusor con una nota aggiuntiva. Grazie infinite Benny...
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