sabato 18 settembre 2021

Antiche feste paesane, che emozione…

 

Vecchi giochi e baracconi delle nostre sagre

di Agide Vandini

 

Sta per terminare il mese di settembre e con esso le più importanti e tradizionali fiere del territorio circostante, quelle quanto meno che ancora non sono state soppiantate dal nostro moderno modo di vivere e di divertirci.

E’ lo spunto per  ricordare, con un filo di nostalgia, qualche vecchio gioco da baraccone di cui si è persa memoria, soprattutto in piccoli paesi come il mio, ove un tempo, per la sagra della patrona Sant’Agata, le strade ed i prati del borgo maggiore venivano ricoperti di bancarelle, banchetti e giostre di ogni genere, per la gioia delle tante persone di ogni età che vi accorrevano, in particolare nel pomeriggio del giorno di festa.

Se ineludibile era l’acquisto, per ogni bambino di casa, di un fischietto rosso di zucchero e di una palla di segatura con l’elastico, l’attenzione maggiore veniva rivolta ad ogni tipo di divertimento proposto nell’occasione, sfilando davanti a giochi e baracche da luna park, ma non solo.

Fra questi divertimenti voglio ricordarne qualcuno, oggi fra i più insoliti o in parte dimenticati.

 

La bëla palutìna

A questo gioco d’azzardo, per quanto lo si sapesse una iattura per gonzi, molti non sapevano resistere. Fin da metà mattina si mettevano davanti al chiassoso ciarlatano e non staccavano mai gli occhi dal suo tavolino.  

Di solito, a praticare questo gioco truffaldino, erano un paio di astuti comacchiesi. Si attestavano lungo la rampa che dà verso la chiesa, più o meno  all’altezza della vecchia fontana dell’acqua potabile. I curiosi seguivano la pallina con lo sguardo e i più sicuri di sé prima o poi decidevano di puntare una banconota da mille. Lo facevano sulla campanella ove pareva finita la piccola pallina nera, delle dimensioni di un granello di pepe. L'uomo dietro il banchetto appariva persino maldestro, tanto che uno dei giocatori di continuava a vincere e ad incassar soldi. Ovviamente si trattava di una collaudata messinscena che permetteva ai due compari di spillare qualche banconota al pollastrello di turno.

«La bëla palutìna l’è chéi… L’è léi… - ripeteva a iosa il comacchiese - Adës in duv èla šgònd a tĕi?…» [La bella pallina è qui… è lì... Ora dov’è finita secondo te?...]

Davanti alle puntate del vero scommettitore, però, la pallina non veniva mai infilata sotto la campanella. Essa restava incollata al pollice inumidito del banditore e da lì veniva poi fatta scivolare sotto una delle altre campanelle e mostrata all’incauto frescone al momento di incassare la scommessa.

 

I dadi del marinaio


Era questo un gioco d'azzardo basato sul tiro dei dadi. Il banchetto veniva piazzato di solito davanti alla Casa del Popolo della frazione argentana, ove ora sta l’ufficio della Polizia Municipale. Sulle sei facce dei tre dadi erano disegnati i segni di Picche, Quadri, Fiori, Cuori, Corona (talvolta Mezzaluna) ed Ancora.

Sul tavolo da gioco erano raffigurati i sei simboli, ciascuno circoscritto in apposito riquadro, come si può vedere sul panno verde della figura a fianco.

Similmente al gioco della roulette gli scommettitori puntavano sui simboli preferiti, mettendo le loro monete all'interno del riquadro prescelto.

Quando la ragazza del Banco riteneva chiuse le scommesse, lanciava i tre dadi dopo averli fatti sobbalzare a lungo all’interno di una sorta di corno in pelle. Ai simboli vincenti pagava la posta ed incassava le puntate di tutti gli altri. Se il simbolo usciva due volte, il giocatore riceveva  il doppio della posta, o il triplo se compariva in tutti e tre i dadi lanciati.

Se ad esempio il Banco otteneva dai dadi due segni di Cuori ed uno di Ancorina,  pagava una volta quest’ultima, e due volte i primi. Il resto delle scommesse sul tavolo era suo.

Il vantaggio del Banco era dunque assai alto, trattandosi di probabilità vicina all'8% (7.8703%), mentre alla Roulette tale valore rimane al di sotto del 3%[1].

 

Tiro al bersaglio

E’ Tìr-a-barsàj era un baraccone che nelle fiere e sagre non mancava mai.

Era quasi sempre gestito da una donna un po’ provocante,  ritenuta cioè in grado di attrarre maschietti giovani, vogliosi di sparare qualche colpo e, soprattutto, intenzionati ad attaccar bottone per poi vantarsi di chissà quali prospettive di conquista nella vicina osteria.

Poter imbracciare una carabina e far strage di gessetti, dopo aver assistito per mesi alle sparatorie dei western americani del sabato sera al Cinema Tebaldi, era comunque già di per sé una soddisfazione impagabile. Chi poi sapeva sparare davvero con precisione, e aveva qualche moneta da cento lire da spendere, chiedeva all’avvenente ragazza di piazzare un cartoncino nel bersaglio e con la somma dei punti ottenuti poteva portare a casa, per trofeo, un coloratissimo pelouche da appendere alla propria madia, oppure al chiodo dello specchio sopra il catino.

Capitava talvolta in paese anche il tirassegno fotografico e lì le tasche spesso si svuotavano per mirare al pulsante al centro di una piastra d’acciaio, nella speranza di far esplodere la schiera di lampade al magnesio ivi predisposte. Il lampo improvviso, fra gridolini di meraviglia, immortalava il tiratore e lo stuolo di accompagnatori attorno a lui, sempre in posa e in attesa del ciac abbagliante e fatale.

 

  Anno 1935 circa.           Filo, sagra di Sant’Agata. Nel foto-flash, mio padre Guerriero Vandini (Ghéo) mentre centra il bersaglio. Fra lui e l’elegante giostraia l’amico Giovanni (Giuanòñ) Cobianchi. Alla destra del tiratore Emilio Minghetti (Miglióri) e un certo Lušór di cui mia sorella Carla, al momento in cui annotammo la didascalia, ricordava il solo soprannome. [Si tratta di Mario Mezzoli, classe 1914 come da preziosa segnalazione di Beniamino Carlotti - v. commenti]

[Foto tratta dall'album di famiglia, a lungo conservata da mio padre nel portafogli e da me restaurata per l’occasione].



  

Autoscontro e autopista

L’autoscontro giungeva in paese un paio di settimane prima della sagra e vi si intratteneva ancora anche dopo, fin quando cioè correva moneta. Il giostraio si piazzava, ai miei tempi, nel prato della nostra frazione alfonsinese, ora Parco Maria Margotti.

Nei momenti di punta e di grande ressa, nonostante la durata di ogni giro fosse via via ridotta, non si riusciva a quasi salire su uno di quei bolidi. Per evitare litigi, oppure per non stare in eterna attesa a bordo pista, bisognava far segni inequivocabili a qualche amico già nell’arena affinché, una volta finiti i cartoncini acquistati, si fermasse con la macchinina proprio lì nei pressi. Se non si avevano le giuste conoscenze si restava a lungo impalati ed inoperosi come baccalà. Il divertimento comunque, una volta saliti a bordo, era assicurato e i colpi dati e ricevuti  di fronte ad un così alto numero di ragazzi e ragazze, uno spasso da ricordare per tutto l’anno.

Dopo gli anni ’60, con l’ampio spazio resosi disponibile per le giostre, venne talvolta in paese anche una vera e propria autopista ad anello, del tipo indicato nella foto in bianco e nero a fianco. Qui non erano possibili scontri né inversioni di marcia, ma i focosi ragazzini vi potevano provare l’ebbrezza dell’alta velocità e il brivido di curve al cardiopalmo...

 

Pozzo (o muro) della morte

Durante gli anni della mia adolescenza credo di non aver mai provato tanta emozione mista a timore come  quando, al Luna Park della Fiera Argentana, spinto dalla curiosità, volli andare ad assistere allo spettacolo cosiddetto del «Pozzo – o muro – della morte».


Non l’avessi mai fatto!

Già durante i preparativi che si svolgevano sotto di noi, non riuscivo quasi a credere possibile quanto annunciavano i cartelloni. Non riuscivo a capacitarmi di una moto così veloce da vincere la forza di gravità e girare in circolo parallela a terra.

Quando poi cominciai a percepire sotto di me lo sconquasso provocato dalle moto a velocità pazzesca fra doghe traballanti  che ad ogni istante parevano andare in  frantumi, ebbi davvero la sensazione che i poveri centauri che saettavano in tondo sfiorando il mio parapetto, avessero i minuti contati ed andassero incontro ad una disgrazia imminente.

Non avevo mai temuto così tanto per la vita di un mio simile.

In quei  minuti  palpitanti non ebbi neppure il tempo di spaventarmi. Osservavo come inebetito quelle corse indiavolate fra le vibrazioni dell’ampio e profondo pozzo di legno che, cigolando e scricchiolando, pareva quasi inclinarsi, per poi risistemarsi e raddrizzarsi in un baleno. Rimasi inchiodato lì, quasi incredulo, in attesa che quel finimondo potesse avere termine.

Non mi è più capitata l’occasione di entrare in un simile inferno, ma posso garantire in tutta tranquillità che nessuno, neppure un diavolo in persona, sarebbe mai riuscito, anche con la forza, a spingermi dentro ad un baraccone ed a uno spettacolo del genere.

Nemmeno per tutto l’oro del mondo…

 

3 commenti:

Benny ha detto...

Lušór, soprannome di Mario Mezzoli, figlio di Raffaele (1891-1959)e di Pasqua Minguzzi (La Fiuchétà 1895-1985, nasce a Filo il 7 Gennaio 1914 nel Palazzone. Sposa l'11 Aprile 1939 Adelma Checcoli e nel dopoguerra si trasferisce con famiglia a Longastrino, ove ne è deceduto alcuni anni fa. Interessanti sono le sue ascendenze, Raffaele Mezzoli era figlio di Dante (1866-1946) e di Maria Morelli (1872-1912), Dante era figlio di Raffaele (1891-1959) e di Dathiva Farabulini (1831-1910), sorella di Monsignor David e di Don Adriano, due illistri, ma purtroppo sconosciuti compaesani, che sicuramente meriterebbero varie pagine di questo blog.

Benny ha detto...

Chiedo scusa ai lettori e ad Agide, ma devo apportare una "Errata corrige" al mio precedebte commento. Anzichè "Dante era figlio di Raffaele (1891-1959)", andava riportato : Dante era figlio di Raffaele (1843-1872).

Filese ha detto...

Inserirò nome e cognome di Lusor con una nota aggiuntiva. Grazie infinite Benny...