domenica 14 febbraio 2010

C’est égal… Scherzi del dialetto

Come andò davvero la storia della Catarina d Lucchi

di Agide Vandini


Abitava poco lontana dall’Osteria, la Catarina d Lucchi che vediamo a destra nella foto, anzi, nella preziosa cartolina d’epoca. E’ quella con la vstina griša [il vestito grigio], un po’ impettita e col braccio proteso davanti agli occhi, nell’istantanea che ritrasse il paese di Filo nei primi anni ’40, al tempo di guerra, prima dei bombardamenti. Nella stessa immagine, alla destra della Catarina, col fazzoletto bianco a capanno tipico delle nostre braccianti c’è la figlia Mentana; alla parte opposta della strada, c’è invece l’altra sua figlia, la Novella, ben vestita e con le mani ai fianchi.

Alla Catarina e alla Novella si attribuisce ancora oggi un curioso aneddoto che risale al tempo del passaggio del fronte di guerra, una storia che ho appreso pochi giorni fa, all’osteria, raccontata da Falco, al secolo Bruno Folletti. E’ bene tuttavia soffermarsi un attimo sulla foto-cartolina, oggi appesa ad una parete del Bar Centrale, poiché essa dà altri buoni spunti per una doverosa ambientazione di quanto si va a narrare.

Nel centro di Filo, ancora integro, sembra un giorno di lavoro come tanti. E’ un pomeriggio d’estate o di tarda primavera. I bimbi davanti all’obiettivo sono scalzi. A giudicare dall’abbigliamento, la gente pare aver interrotto di colpo l’usuale occupazione, accorrendo ad osservare un tipo col cavalletto, un fotografo venuto da fuori, qualcosa di inusuale per quegli anni. Davanti all’osteria, e sotto l’antica insegna “Vini e liquori”, s’è radunata molta parte di chi vive, lavora o gironzola nei pressi.

La signora vestita di scuro, e con le mani in grembo, al margine della strada sulla destra, è mia madre Elvira Toschi (ad Capitëni). Così almeno è parsa anche a mia sorella Carla che mi ha coadiuvato nei riconoscimenti. Del resto la mia prima casa, ove nacqui appena dopo la guerra, è la terza da sinistra.

Altri visi riconosciuti con una certa convinzione sono la Giana d Cidöti, alla sinistra della Novella, e il bimbo Pippi, ossia Aderito Geminiani, sulla destra della foto, proprio sotto la madre Mentana. Più incerti i riconoscimenti di Ginòn Veduti, allo stesso lato, unico a cavallo di una bicicletta e, a sinistra di questi, in piedi e con la camicia bianca, Diego d’Ravèt (Signani). Altre facce sembrano avere qualcosa di vagamente familiare; difficile però, riconoscerle con precisione e dar loro un nome e un cognome.

Osservando a distanza di anni la gente ai lati della strada, viene da chiedersi se, oggi, altrettante persone e soprattutto così tanti bambini, vivano ancora in tutta la Provinciale che attraversa Filo. Eppure, fino agli anni ‘60 lì prosperavano le botteghe e si assiepavano numerose le bancarelle per Sant’Agata. Oggi lo stesso tratto è purtroppo assai decaduto, prima sconvolto dalla guerra, poi deturpato da una edificazione cervellotica e pasticciona, infine, in troppi casi, abbandonato da abitanti che hanno scelto di emigrare altrove.

In quegli anni ’40, invece, quello era il centro nevralgico della comunità e se ne accorsero anche i tedeschi che, in tempo di occupazione, impararono a temere quelle due fila di case affiancate, anima stessa di un paese ribelle. Furono ben ricambiati dai nostri paesani, sempre sospettosi verso un popolo che tante volte nella storia ha cercato di metterci sotto i piedi, con una bellicosità che pare insita nella lingua gutturale e militaresca che li contraddistingue, forse fatta apposta per impaurire chi l’ascolta.

Ben altro scenario fu quello che accolse invece le avanguardie alleate il 14 aprile del ’45, allorché attraversarono, provenendo da est, tutto il paesello, o meglio il cumulo di macerie che ne rimaneva. Le due fila ordinate di case avevano subito pesanti e devastanti bombardamenti. La gente, in massima parte vecchi, donne e bambini, uscirono quasi increduli dai rifugi antiaerei, dalle stalle (in particolare da quella affollatissima della Ghedinia) e dai nascondigli ove si erano prudentemente ritirati, presagendo i pericoli che ci sarebbero stati lì, sulla vecchia strada, nella battaglia e nei giorni dell’offensiva finale.

Verso gli inglesi e loro alleati, giunti dopo giorni e mesi di sofferenza, non ci furono certo le diffidenze riservate fino ad allora ai tedeschi e ai repubblichini. Pur portatori anch’essi di morti e di lutti, questi ragazzoni venuti dal di là del mare e dell’oceano, furono visti come i Liberatori dall’Oppressione e dalla Guerra. L’atteggiamento della popolazione che aveva perso quasi tutto, ma che grazie a loro stava riconquistando il bene prezioso della Libertà, si improntò ad un naturale spirito di ospitalità verso gli alleati, animato da curiosità (per qualche pelle scura) e anche da aperta meraviglia, per i generi introvabili di cui erano provvisti e di cui erano piuttosto generosi (cioccolata e sigarette).


Filo, 14 aprile 1945


Mia sorella, allora una bimbetta di dieci anni alquanto mingherlina, ricorda ancora con emozione un soldato di colore, uno della squadra che ripristinava la strada sfondata dalle bombe, che scese lungo la rampa che portava a casa nostra e disse gesticolando al nonno: «Pàpa, dare qualcosa …, io dare per bimba …» Mio nonno allungò una scodella rossa di bachelite e il soldato tornò subito, con la tazza piena di latte e di pane.

Erano però anch’essi soldati e soldataglia, sicché, come sempre è successo negli eserciti d’occupazione d’ogni tempo e luogo, qualche soldato della regina aprì cancelli, s’infilò nelle case semi abbandonate, talvolta in cerca di nemici improbabili o di qualche altro tipo di preda o bottino.

Un paio di loro entrarono, ad esempio, stando ai racconti, nel cortile della Catarina, ovvero della nostra Caterina in Ricci Lucchi, rientrata da poco nella casa che stava dietro ai «Vagoni». Lei, già indaffarata nelle incombenze domestiche, notò dalla finestra i due dinoccolati canadesi appressarsi con chissà quali intenzioni, forse per una banale ispezione o controllo. Lei li affrontò comunque fiduciosa.

Da lontano li aveva sentiti parlare in una lingua rotonda, con suoni e cantilene melodiose e, poi, lei aveva sempre avuto a che fare con parecchi figli, in particolare con uno svitato come Lépro, il figlio minore[1], sicché, se c’era da tener quieti qualcuno, lei sapeva bene come fare:

«C’sa zarchìv?» [Cosa cercate?] disse, di primo acchito e con dolcezza, la Catarina aprendo l’imposta socchiusa. Si sentì rispondere:

«Luchi, Luchi…», ossia, si può presumere: «We’re looking… looking…» [Cerchiamo un po’ in giro …]

La Catarina pur ben disposta, si sentì sopraffatta dallo stupore e anche da un po’ di confusione, sicché si rivolse subito alla figlia:

«Mo’ddio, Novella, i zérca Lucchi… [Mio Dio, Novella, cercano Lucchi…] ( marito di Caterina), mo’ u ngn è miga in cà… [Ma non c’è mica in casa…]»

Da parte sua, il soldato, vedendo l’anziana donna tanto allarmata ed eccitata, che si schiaffeggiava sonoramente le mani palmo contro palmo, si inquietò. Non aveva capito assolutamente nulla di quella lingua ostrogota usata dalla Catarina… E forse, chissà, c’era da stare in campana in quello strano paese … L’altro canadese, invece, probabilmente del Quebec, pensò di ricorrere al francese prima di cambiare obiettivo ed andare a mettere il naso altrove. Cercò così, a modo suo, di calmare la donna:

«C’est égal …» [Non fa nulla …] disse a muso duro.

«Ohi, s’u j è armàst …» [Ohi se ce n’è rimasto uno..] disse la Catarina, con parecchia delusione, poi si rivolse di nuovo alla figlia:

«Novella daj e’ gàl che acsè i s’avëia…» [Novella, dagli il gallo che così se ne vanno …]


Quando si dice dei prodigi e degli scherzi di cui è capace il dialetto romagnolo …

Ovviamente, avuto il galletto, i due soldati si levarono alla svelta di torno.

La Catarina pur spiaciuta per la perdita del pennuto non ebbe mai alcun pentimento. Fu sempre convinta, anche in seguito, di aver capito al volo a cosa puntavano quei due soldati forestieri. Non me la sento neppure di darle torto. Sacrificò il galletto, in fondo, in nome dei buoni rapporti italo - britannici e relativi dominions.

Loro, invece, i canadesi, gustato il buon galletto da cortile e presto catapultati in lande meno accoglienti, devono essersi chiesti a lungo, e con poche convincenti risposte, come diavolo aveva fatto quell’anziana campagnola dall’aria contadina, a slanciarsi in una offerta simile, pur affrontata in due lingue forestiere e senza averle chiesto assolutamente nulla … Che paese, che gente ospitale questi romagnoli …



[1] Riguardo a Lépro ho già raccontato tempo fa alcune sue pirotecniche avventure, in particolare a bordo del «disco volante» nel dopoguerra in A.Vandini, Il cestello dei ranocchi, Ravenna, Longo, 1999, «Arieti e dischi volanti».



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