venerdì 7 marzo 2008

Le «mondine di Filo» e i loro canti

Le lotte, le canzoni, il coro che portò il nome di Maria Margotti
di Agide Vandini


Non ho mai trascorso un «Otto marzo» senza tornare con la mente a figure epiche come le mondine del mio paese, o più in generale, come le generose don de’ Culetiv, figure ed immagini che per me sono sempre state un tutt’uno con l’orgoglio femminile ed un indomabile, fiero, spirito di lotta.
Oggi la battaglia per l’emancipazione della donna, fra le mura di casa come nei luoghi di lavoro, si può dire in gran parte vinta, ma nell’immediato dopoguerra, vedere le donne in prima fila, negli scioperi come nelle durissime lotte per le conquiste sociali, faceva ancora un certo effetto, in un mondo peraltro quasi arcaico che, fino ad allora, aveva colpevolmente preteso di confinarle nell’oscuro e marginale ruolo di “angelo del focolare”.Mi pare perciò elementare ricordare queste figure nel primo «Otto marzo», dell’“irôla” virtuale filese, in un giorno cioè in cui, il solo profumo delle mimose, evoca in chi scrive immagini ben scolpite e nitide, incarnate in una grande storia di sacrifici e di condizioni di lavoro durissimo, un’epopea oggi conservata forse e soltanto nei loro canti di lotta. Con quei canti le nostre donne seppero per anni farsi «intendere», fecero conoscere cioè a chi di dovere, senza tanti pirlindon e senza timore alcuno, i loro sentimenti e le loro ragioni.
Passata l’epoca, e già intorno ormai alla metà degli anni ’70, quei canti di lotta per l’emancipazione furono opportunamente ripresi da un «coro delle Mondine di Filo» che si esibì un po’ ovunque, in Italia ed all’estero, portando un nome glorioso e simbolico, quello della loro compagna di lavoro Maria Margotti, caduta sotto il piombo della polizia in uno sciopero del 1949, ai tempi di Scelba ministro degli Interni.
Quei canti delle nostre risaie vennero così portati in giro per il mondo, canti popolari, canti antichi e pieni di storia, fatti conoscere ad un pubblico quasi sempre stupito dallo slancio ideale che stava alla base delle battaglie più sofferte.
Grazie al coro delle «Mondine di Filo» si poté scoprire, fuori dal contesto locale, un canto popolaresco dal timbro forte e dal ritmo a volte languido a volte serrato, che nei campi e nelle risaie aveva dato voce alle grandi rivendicazioni delle donne, ad istanze di uguaglianza, a sentimenti e propositi per tanto tempo osteggiati o negati, a strofe talvolta persino provocanti, oppure apertamente gaie, divertenti, piacevolmente maliziose.
Per chi riascoltava questi canti a distanza di anni era, invece, un riandare con la mente alla propria gioventù, ad emozioni mai dimenticate, ad una sensualità, quella delle mondine a gamba scoperta, un tempo quasi sfuggente, ad una femminilità appena intuita nelle occhiate imbarazzate, a volte soltanto immaginate all’ombra dell’enorme «capan» ricoperto da un candido fazzoletto, un impalcatura che nascondeva il viso e con esso ogni gentile sembianza delle nostre braccianti. Emozioni, suoni ed immagini che in molte occasioni, scrittori, pittori, compositori, registi hanno saputo riprendere con perspicacia, cogliendo, quasi sempre e fino in fondo, l’animo gentile, e allo stesso tempo pugnace, delle mondine e delle braccianti romagnole.
Ecco allora un primo canto del loro ricco repertorio. Il testo proviene da una bellissima poesia dialettale dell’alfonsinese Edda Forlivesi (si veda: Giurdana, Ravenna, Edizioni Girasole, pp.32-33). Lo trascrivo con la grafia usuale di questo sito, che vuol essere fedele alla fonetica locale e quindi delle nostre mondine:
Al don de’ Culetiv
Apena e’ spunta l’êlba ló al s'aveja
e quand che e’ sol e’ môr al tórna indrì
al don de’ culetiv agli è par la veja
al chenta : «Mureta ach bël durmì…»

Un grimbialon scurtê un pô smalvì
u-t lasa avdé dal pëz acsè a la bóna
un fazulet int j ŏc a l'imbrunì
du ŏc ch’i bréla nench cun la stracóna

Al calzët grösi sempr a cagarëla
int un pér ‘d schêrp asredi cun un pton
e stra la rôda d’drì u j è l'umbrëla
d'arvì s'e' ciöca e' sól, par magnê un töch.

S'al pasa ló e' pasa la campagna
u-s sent l'udór dla têra e quel de’ fen
e söta a che moc ’d blëch masé póch ben
e' bàt un côr zintil, l'è e' côr d’Rumagna!
Le donne del Collettivo
Appena spuntata l'alba se ne vanno
e tornano quando il sole muore
le donne del collettivo sono per strada
e cantano «…Moretta che bel dormire…»

Un grembiule accorciato un po’ stinto
Ti lascia intravedere pezze alla buona
un fazzoletto sugli occhi all'imbrunire
due occhi che brillano anche se stanchi.

Le calze grosse sempre abbassate
in un paio di scarpe abbottonate
e fra la ruota posteriore c'è l'ombrello
da aprire col sole cocente per mangiare.

Quando passano loro passa la campagna
si sente l'odore della terra e del fieno
e sotto quel mucchio di stracci malmessi
batte un cuor gentile: il cuore della Romagna!
E’ un testo felicissimo e davvero ispirato questo della Forlivesi. Di meglio non si sarebbe potuto fare per rendere vive e palpitanti le immagini evocate dal canto, sequenze che corrispondono in pieno al mio ricordo di bambino, di quando cioè le braccianti mi passavano davanti quasi ogni sera in gruppo, avvolte in una nube polverosa, a pochi palmi da casa mia. Ci si dava persino la voce fra bambini: E’ pasa al don de’ culetiiiv…
Era come una festa, quasi che passasse il Giro d’Italia. Tante volte eravamo proprio noi bambini, in tempo di trebbiatura e quando il loro lavoro era poco distante, a portar loro direttamente da casa, sul mezzogiorno, un pasto caldo col pignaten infilato nel manubrio della bicicletta. C’era rispetto, riverenza per la loro fatica, sicché, vedendole passare davanti a noi, si interrompeva ogni sorta di gioco; si cercava di osservarle mentre tornavano al paese e si tentava in quei pochi attimi di riconoscerne o di chiamarne qualcuna.
Ne ascoltavamo ammirati il bel canto in coro, ne intuivamo la stanchezza dalla faticosa pedalata, ma lo sforzo era ancora ben nascosto dal sorriso e da un’allegria naturale nella voce, propria di chi sta per riprendere le incombenze più amate: la cura dei figli, la vita di famiglia alla fine di una dura e proficua giornata di lavoro.
Della loro gaiezza, della loro ironica aria di sfida, sono testimoni queste due curiose strofe:
Purtis da bé
Purtis da bé, purtis da bé
ch'aven gran sé, ch'aven gran sé
aven magnê dla zöla,
aven magnê d'la zöla

Purtis da bé, purtis da bé
ch'aven gran sé, ch'aven gran sé,
avèn magné d'la zöla,
cundida cun l'asè, purtis da bé…
Portateci da bere
Portateci da bere, portateci da bere,
abbiamo una gran sete, abbiamo una gran sete,
abbiam mangiato molta cipolla
abbiam mangiato molta cipolla

Portateci da bere, portateci da bere,
abbiamo una gran sete, abbiamo una gran sete,
abbiam mangiato molta cipolla
condita con l'aceto, portateci da bere...
Il più faticoso fra i lavori in campagna era poi quello della mondina, un tipo di bracciantato che toccava, quasi per predestinazione, alle donne. Per raggiungere in bicicletta le risaie, un tempo estese per quasi tutta la bonifica del Mantello, piuttosto distante dai nostri centri abitati, la mondina, e mia madre era una di queste, si alzava quando ancora era buio e per otto o più ore stava con l’acqua melmosa a mezza gamba. Mondava il riso dalle erbe cattive, prima fra tutte l’infestante giavon, oppure lo mieteva, sempre a corpo chino, impugnando con una mano la pianta da tagliare e con l’altra la falce arcuata da risaia.
Erano lunghe ore sotto il sole cocente, interrotte appena par fê cazion, ossia per mettere qualcosa sotto i denti al riparo di un vecchio ombrello, un umile parasole che forniva un minimo di frescura al momento del riposo. Ore di lavoro durissimo, sotto l’occhio del caporale a cui si doveva chiedere ogni tipo di permesso, anche per il più elementare bisogno corporale. Ai margini della risaia facevano da cornice soltanto le sporte e le biciclette, queste ultime affiancate e rovesciate affinché non si sgonfiassero sotto il sole a picco.
Nel lavoro, alla mondina si chiedeva una ferrea disciplina ed un’attenzione estrema. Guai a trascurare qualche ciuffetto, o a non seguire il passo delle altre lavoratrici sotto l’occhio vigile e severo del padrone, oppure del caporale, spesso ancor più «carogna» del principale. Farsi riprendere poteva costare il posto, la mancata inclusione nella «lista» del giorno dopo, e, di quelle ore al tempo del raccolto, di quel salario prezioso, la famiglia della mondina aveva estremo, irrinunciabile bisogno.
Unico sollievo da un lavoro tanto duro era il canto corale talvolta melodioso, altre volte pungente, che accompagnava quasi tutta la giornata. Erano canzoni vecchissime, imparate sui campi fin da adolescenti, tramandate da generazioni, in una terra di risaie impiantate fin da epoche remote, si può dire dalla metà del Cinquecento. Erano canti, in origine, quasi sempre d’amore, talvolta provocanti, sfrontati e divertenti come queste strofe ove il dialetto, per esigenze di rima, lascia ogni tanto spazio al più «classico» e composto italiano:
La strêda dla Muróna

Drì dla fösa dla Muróna
u j è una strêda polverosa
par chi zùvan ch’i va 'mbrósa
e non stan fermi con le man

Non stan fermi con le mani
e nemmeno coi ginocchi
mamma mia apri gli occhi
che tu fiôla la va a dan.

E mi mama mata mata
mata me ch’a sö su fiôla
la m’à fata parpaiôla
a voj dêla a chi voj me…

A vòj déla a preti e frati,
alle guardie di finanza
e quel poco che m'avanza,
a ch'é bèch ad mì maré…
La strada della Murona
[località nei pressi di Bando]
Dietro la fossa della Murona
c'è una strada polverosa
per i giovani che cercano morosa
e non stan fermi con le mani

Non stan fermi con le mani
e nemmeno coi ginocchi
mamma mia apri gli occhi
che tua figlia si sta perdendo

E mia mamma mattacchiona
come me che son sua figlia
lei mi ha fatto farfallina
e io voglio darla a chi mi pare

Voglio darla a preti e frati
alle guardie di finanza
e quel poco che rimane
a quel cornuto di mio marito…
A questo genere di testi si aggiunsero ben presto combattive canzoni di lotta come La lega (Sebben che siamo donne, paura non abbiamo, per amor dei nostri figli, in lega ci mettiamo ecc.), altre in cui, nel secondo dopoguerra, riecheggiarono gli ideali e le battaglie della Resistenza, altre ancora inneggianti la sospirata emancipazione sociale. Negli ultimi due testi qui proposti, si desumono alcuni temi di quel periodo e da essi si può percepire tutto il pathos e la passione che le nostre mondine, col loro canto, ci hanno saputo trasmettere:

La mondina
Son la mondina, son la sfruttata
son la proletaria che giammai tremò
mi hanno preso e incatenata
carcere e violenza, nulla mi fermò.

Coi nostri corpi sulle rotaie
noi abbiam fermato il nostro sfruttator
c'è tanto fango nelle risaie
ma non porta macchia il simbol del lavor

Questa bandiera gloriosa e bella
noi l'abbiam raccolta e la portiam più su
dal vercellese a Molinella
alla testa della nostra gioventù

E se qualcuno vuol far la guerra
tutti uniti insieme noi lo fermerem
vogliam la pace sulla terra
e più forti dei cannoni noi sarem.

Noi lotteremo per il lavoro
per la pace, il pane e per la libertà
e costruiremo un mondo nuovo
di giustizia e vera civiltà.
Maria Margotti, la morte di una mondina
Se non ci conoscete, guardateci negli occhi,
Noi siamo le compagne, della Maria Margotti

Maria Margotti partì da Filo un giorno
Coi scioperanti andava a Molinella
perché la lotta in quella dura terra
non dava pace a dei lavorator.

Venne colpita dal piombo traditore
Che difendeva il crumiro ed il padrone
Con la tristezza di un simile orrore
Con gran dolore in cuore, s’udì cantar così

Maria Margotti era una grande mammina
Ella è caduta per la Pace e il Lavor
Lei sarà sempre, la più grande eroina
dei nostri cuor, Maria Margotti.

Da Molinella fecero ritorno
sulle bandiere c’era un vessillo nero
tra i scioperanti che fecero ritorno
Maria non c’era, ahimè non verrà più.

Ognuno rimpianse la madre trucidata,
Maria riposa laggiù vicino al ponte,
e le sue figlie aspettavano il ritorno
in fondo al loro cuore, udir cantar così…
Parole semplici, come si può ben vedere, parole modulate solo dalla voce, senza alcuno sfondo musicale che non fosse il silenzio dei campi e delle risaie, intercalato semmai dal pigro gracidare dei ranocchi. Di questi canti, ci restano un paio di musicassette, qualche fotografia e poco più. Canzoni, immagini che ai più giovani certo non possono ricordare nulla, ma che ancora oggi sono nel cuore della mia generazione e che, in fondo, rappresentano elementi importantissimi del nostro patrimonio culturale e della più gloriosa storia italiana del Novecento.


Le «mondine di Filo» e i loro canti - Galleria fotografica

Anni ’40. Giovani mondine filesi. Da sinistra a destra: Angela Toschi (Lina), Alice Battaglia, Emma Saiani, Wilma Quattrini, Mariolina Bolognesi, Elvira Tirapani (Dalla mostra fotografica Unità Filo 1996, pannello n. 20, curata da A.Vandini).

Gruppo di mondine filesi, intorno al 1950, in posa sull’arginello di una risaia. Da sinistra, in piedi: Maria Saiani (d’Gianêl), Frida, Edma, Checcoli Giovanna (Gagia), Ricci Lucchi Mentana, Minguzzi Bradamante (‘Mante), Toschi Serena, Maria Pollini (d’Raflon). In ginocchio e più rialzate: Carolina (Carlina), Teresina de’ Göb. Sedute o sdraiate: Veduti Giovanna (Giana), Cavalieri Eda, mia madre Toschi Elvira, Bolognesi Berta d’ Bajuchen, Wilma Pollini, Aldina Bolognesi (d’Scanelli), Maria Ravaglia (d’Tachini), Cesara de’ Tratór. (Collezione Vandini-Toschi)
Risaie filesi anni ’50. Le prime da sinistra sono Alma Cillani e Liliana Fiorentini (Liliana d’Turaza). A destra in primo piano Desdemona Penazzi. (Dalla mostra fotografica F.Unità Filo 1996, pannello n. 20, curata da A.Vandini)
Mondine filesi, a cavallo degli anni ’50. Dietro e più in alto: Saiani Maria (d’Gianêl), Aldina Bolognesi (d’Scanelli), Benassi Lina, mia madre Elvira Toschi, Clelia Toschi, Teresina (Mariunzëla d’Pulon), un uomo col cappello, Gregori Sintina, Guerrina Bolognesi, Vandini Filomena (Mina de’ Göb), Checcoli Giovanna (Gagia), Contoli Maria (d’Solè), Serena Toschi. Davanti e chinate: Una mondina messa in ombra dal suo fazzoletto, Bolognesi Elide, Emma Saiani, Ravaglia Maria (d’Tachini), Bolognesi Berta (d’Bajiuchen), una mondina col viso abbassato, Bolognesi Noemia. Col berretto sulla destra: Romagnoli Enrico (e’ Mas-cì). (Collezione Vandini-Toschi).
Risaie filesi. Colazione sull’arginello, vicino alle biciclette. Si notino le gomme all’aria o l’ombrello aperto per evitare le sgonfiature sotto il sole cocente. (Dalla mostra fotografica F.Unità Filo 1996, pannello n. 21, curata da A.Vandini)
Anni ’70. Le mondine filesi del coro “Maria Margotti”, ormai in età piuttosto matura, tornano in risaia per una foto da copertina.

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