1930 - Italia-Spagna
al Littoriale sotto gli occhi di Ghéo e Martìñ
di
Agide Vandini
in ricordo degli amici:
Ibanez, detto e’ Baròñ, Tino, detto Tinëla, Franco, detto Sghégo
compagni di fede e di indimenticabili domeniche
allo Stadio
Tra
le partite di calcio a cui mio padre (classe 1912) ebbe la ventura di assistere
allo Stadio di Bologna nella sua giovinezza, questa era una di quelle più
importanti. Talvolta me ne parlava da bambino ricordandone particolari circostanze,
un po’ per tornare agli ultimi bei ricordi dei suoi 18 anni, un po’, forse, per
alimentare nel figliolo la stessa passione per lo sport, per il calcio e per i
colori rossoblù .
A questa partita-evento del 1930 papà Ghéo
andò con un altro filese, il quasi coetaneo e pur malaticcio Martìñ
(Ezio Natali, classe 1908). I due viaggiarono sulla moto guidata da Alfonso
Bellettini, il papà di Ibanez ed Uber, alternandosi sul carrozzino laterale e
sul seggiolino posteriore. Si trattò di una giornata densa di quadretti memorabili,
di momenti avventurosi che, mezzo secolo dopo, furono ripresi e narrati da
Libero Ricci Maccarini nell’ambito di un ampio profilo dedicato al geniale
fratello di Céncio Natali, l’irripetibile personaggio spentosi, ahimè, a
soli 28 anni nel 1936 .
Il
babbo era già stato altre volte allo stadio di Bologna, sempre accompagnato con
entusiasmo da Tonino Cavalli, il più giovane degli zii materni, sarto colto e
brillante che, come gli altri fratelli di nonna Agida (Amilcare ed Eufemia) s’era
trasferito a Bologna nel primo ‘900.
Percorrendo
talvolta la lunga distanza in bicicletta e soggiornando a Bologna presso gli
zii, Ghéo aveva potuto vedere da ragazzino il Bologna di Anzlèin Schiavio e
di Geppe Della Valle all’epoca in cui si giocava ancora al campo dello
Sterlino.
Tre
anni prima, nel ’27, aveva presenziato alla seconda inaugurazione dello Stadio
Littoriale, ovvero al leggendario incontro Italia-Spagna in cui capitan Baloncieri
- così raccontava - aveva insaccato la palla nella porta del mitico ed
imperforabile Ricardo Zamora, detto El Divino, un portiere leggendario che
incuteva, negli attaccanti avversari, soggezione e persino timore reverenziale.
Dopo
quella storica partita erano successe altre cose notevoli nel calcio nostrano.
Il Bologna del favoloso Schiavio e del mago Felsner s'era confermato squadra fortissima: già campione nel ’25, aveva
vinto il suo secondo scudetto nel ‘28-29, ma avrebbe potuto essere il terzo per
quel contestato secondo posto di due stagioni prima su cui si discute ancora
oggi .
C’era
stata, poi, l’introduzione del girone unico a partire dal 1929-30, campionato vinto
dall’Ambrosiana-Inter, formazione trascinata dal grande Meazza, un fenomeno
che, appena ventenne, s’era aggiudicato anche la classifica cannonieri con 31
reti.
L’Italia
s’era affermata nella Coppa Internazionale, primo torneo continentale per squadre
nazionali disputato in Europa. Era una competizione che vedeva di fronte le
compagini dell'Europa centrale e la nazionale italiana: di fatto un
campionato europeo giocato nell’arco del triennio 1927-1930. Se l’era
aggiudicato l’Italia proprio poche settimane prima, il 22 maggio 1930, grazie
alla sonante vittoria di Budapest per 5 a 0 che la elevò al primo posto nella
classifica finale .
Va
infine ricordato che in quello stesso anno 1930 stava per disputarsi, in Uruguay
e nell’ormai imminente mese di luglio, la prima Coppa Rimet, il primo mondiale
di calcio organizzato fra tante polemiche e rinunce. A quella competizione
l’Italia, come tutte le più forti nazioni europee, aveva rinunciato.
È
questo il contesto in cui la domenica 22 giugno 1930 era stato organizzato a
Bologna l’incontro amichevole-rivincita Italia-Spagna, un match che si
preannunciava quanto mai avvincente e che, ovviamente, finì per attirare mio
padre (calciatore praticante e fervente tifoso rossoblù) nonché il pur gracile Martìñ
(di fede interista e grande ammiratore del sublime Meazza), uno fra i più accaniti
appassionati di calcio del paese di Filo.
La foto a fianco è proprio della fine
anni ’20 e ritrae, nel campo della Pradina i pionieri del calcio filese. In
piedi e da sinistra: Giuanòñ
Geminiani, Max Barabani, Ghéo Vandini, Pipòñ Fabbri, Sereno Vandini. Gli accosciati sono Ovidio Saiani ed
Ezio Natali (Martìñ). Seduti, da
sinistra: Raflòñ Vandini, Catóna Siroli (l’asso dell’epoca) e Pipĕñ Toschi.
Chi
voglia godersi il clima e le avventure ‘pre’ e ‘post’ partita dei nostri
giovanotti, non ha che da leggersi, qui in appendice, il brano «Martìñ e i
campioni che amava», tratto dal capitolo di Libero, un racconto ovviamente basato
sulla narrazione dei protagonisti. Ciò che è sempre mancato in quella bella storia
paesana è però la stretta cronaca sportiva, ossia il resoconto di come quella
partita finì sul campo, quale ne fu l’esito e l’andamento, ‘dettagli’ di cui,
anche nelle divertite rimembranze del dopoguerra, non si parlò praticamente
mai.
Peraltro,
per uno sfortunato refuso di stampa, il testo di Libero reca una datazione errata
dell’evento. Quella esatta l’ho appresa in questi giorni dal testo di Franco
Cervellati .
È venuto così il momento di colmare la lacuna, col materiale che ho potuto
reperire e che mi par giusto condividere coi lettori di questo blog.
Il
tabellino
La
cronaca
La
partita prese una svolta emozionante fin dall’inizio allorché, al 3', l'Italia
segnò il primo gol con Costantino. La Spagna però non si arrese e al 30', Regueiro
riportò il risultato sull'1-1. A quel punto l'Italia non perse determinazione e
al 40' riprese il comando grazie a un altro gol di Costantino, davvero nel suo
miglior momento e capace di incantare il pubblico con le sue prestazioni.
Sul
punteggio di 2-1 l’Italia, ad inizio secondo tempo, operò due sostituzioni.
Entrarono Monzeglio per Rosetta e Martin per Pitto, al fine di portare
freschezza in squadra. Nonostante gli sforzi dell'Italia, tuttavia, fu la
Spagna a trovare il gol del pareggio al 72', ancora con Regueiro, che realizzò la
sua seconda rete personale.
Mentre
la partita rimaneva in bilico ed entrambe le squadre cercavano di ottenere la
vittoria, la Spagna trovò il gol decisivo con Vantoira, all'87', quasi a fine
partita.
Sul
risultato di 3-2 a favore degli ospiti, gli azzurri tentarono un ultimo sforzo,
ma la Spagna riuscì a difendersi bene e a mantenere il vantaggio fino al
fischio finale.
Nonostante
la delusione per la sconfitta, l'Italia poté sentirsi orgogliosa della
prestazione contro una forte squadra come la Spagna. La partita aveva
dimostrato il talento e la determinazione di entrambe le squadre ed aveva offerto
un grande spettacolo agli appassionati di calcio presenti allo Stadio .
La
rivista
Curiosando
in rete ho potuto acquistare per pochi euro una preziosa rivista d’epoca,
ovvero «La Domenica Sportiva» - Settimanale illustrato de “La Gazzetta dello
Sport” datata 29 Giugno 1930. L’evento di quei giorni viene trattato a
fondo con foto e commenti interessantissimi, tre pagine che qui riporto per
intero a beneficio dei lettori.
(per un’agevole lettura dei testi consiglio il
clic su ogni immagine, per ingrandirle a tutto schermo)
Il
filmato :
In
rete è fruibile anche un interessantissimo e nitido filmato della partita girato
dall’Istituto Luce. Dura 3’ e 49” e propone molte panoramiche dedicate alla
gara, agli spalti gremiti, al pubblico osannante, nonché all’imponente ed
appena eretta torre di Maratona. Davanti a quest’ultima campeggia - come da
fermo immagine - la bronzea statua equestre del Duce Mussolini, statua poi
abbattuta alla caduta del fascismo.
Cliccare qui per prendere visione del breve filmato
°°°
La
dedica:
Mi
è parso appropriato dedicare questo ricordo calcistico, ambientato nello stadio
amico e nei fasti del tempo che fu, a tre compagni indimenticabili coi quali ho
tante volte frequentato quello stesso luogo, seguendo in questo le orme del mio
amato genitore.
Il
primo a cui mi sento di dedicare queste righe è il filese Ibanez Bellettini,
detto e’ Baròñ, un caro amico che ci ha lasciato qualche anno fa e del
quale raccontai alcune belle avventure in uno dei miei libri di racconti
paesani :
era un grande tifoso, elegante quanto sanguigno. Se devo scegliere fra i tanti
ricordi di gioie e sofferenze che vivemmo assieme, ce n’è uno soprattutto che mi
emoziona ancora. È quello del famoso rigore di Bordon, centravanti dal piede
ruvido e ben poco prolifico, un gol messo a segno nel rocambolesco pareggio
casalingo per 2 a 2 con l’imbattuto Perugia. Fu un tiro ‘liberatorio’ che, nel
lontano anno 1979, ci salvò miracolosamente dalla retrocessione, grazie alla
contemporanea sconfitta del Vicenza a Bergamo.
Avvenne
all’ultima di campionato, dopo che la formidabile squadra umbra era andata in
vantaggio per 2 a 0. Salvatore Bagni era stato il mattatore di giornata fino a
che era stato messo fuori combattimento da una legnata provvidenziale di Cresci.
Una flebile speranza aveva poi preso corpo fra i tifosi petroniani dopo un
insperato, ma vincente, contropiede di «Mastallino». Al riposo si era andati sull’1
a 2, un risultato che, comunque, significava “serie B”.
Ad inizio secondo tempo il cielo si squarciò e
l’arbitro decretò, proprio sotto la nostra curva, un rigore potenzialmente
liberatorio a nostro favore. Fra gli scongiuri di tutto lo stadio se ne
incaricò Bordon, attaccante che, quanto a realizzazioni, in tutto il campionato
si era fatto valere ben poco…. Fatto sta che il pur spavaldo Barone non
ebbe neppure il coraggio di guardare quanto sarebbe accaduto sotto di noi.
Mi
disse in un orecchio: «Io, caro mio… Mi giro dall’altra parte… Mi dirai poi
tu…»
Fu
invece il boato della curva rossoblù ad annunciare l’esito gaudioso… Da quel
momento seguimmo entrambi con apprensione la voce gracchiante delle radioline
che aggiornava il risultato di Bergamo e la sistematica melina che aveva luogo
in campo, una sceneggiata che durò fino alla fine della partita. Confortati dai
risultati che stavano pervenendo, nessuna delle due squadre volle più
attraversare la metà campo: chi per salvare l’imbattibilità, chi per salvarsi
dalla caduta in serie B. La retrocessione, tuttavia, fu soltanto rimandata di un
paio d’anni, ossia al 1982, l’anno magico di Robertino Mancini, 16enne del vivaio
che il Barone chiamava il «bambin Gesù», verso il quale lanciava grida
ed accorate invocazioni che galvanizzavano tutta l’Andrea Costa.
Come
non accostare al Barone il carissimo e indimenticato Tinëla Leoni,
filese dall’immenso cuore rossoblù, sempre in pena per la sua squadra della
quale chiedeva notizie fresche in continuazione, a volte facendo la spola fra
casa mia ed il distributore di Ibanez e di Maurizio, babbo e figlio, peraltro, sempre
fiduciosi all’estremo, sempre convinti di darne tre ai malcapitati avversari.
A
Tino, al suo personaggio, all’amore per il rossoblù e per l’azzurro filese, sono
dedicati due articoli di questo blog, con una foto tanto suggestiva da potersi
definire ‘storica’ ed un esilarante brano dialettale di Orazio Pezzi .
Infine
l’ultimo mio pensiero rossoblù va all’argentano Franco Buldrini, detto Sghégo
in gioventù, un vecchio amico che se n’è andato pochi giorni fa: ex terzino di
lotta e di governo, bolognese nell’anima come pochi, un vero ‘seguace’ della
palla rotonda che amava visceralmente. Ottimo osservatore del gioco, della
tecnica e della tattica, era davvero un piacere scambiare opinioni con lui,
nonché commentare ogni partita al ritorno dallo stadio. Una volta, dopo una
partita notturna, forse perché troppo concentrati sui nostri discorsi, ci
inzuccammo con l’auto ad un incrocio di Molinella, ma furono danni soltanto
materiali, tutto si aggiustò e si continuò imperterriti nella nostra passione,
esattamente come prima.
È così che andò, fino
ad una quindicina di anni fa quando il sottoscritto, abbonato allo stadio da
una vita, sopraffatto dal tifo becero e violento, nonché da un calcio sempre
più attratto dal business e sempre meno dall’aspetto sportivo, decise che era
il momento di starsene a casa.
Lui,
no. Lui continuò ancora fino a che la salute, ahimè divenuta precaria, glielo
permise.
L’amico Franco Buldrini
Pur
da razionalista e non credente, amo pensare che, questi cari amici, ora mi
stiano aspettando ai margini di verdi e sterminate praterie, gremite di bimbi chiassosi
che giocano a palla, tutti e tre sorridenti, ammiccanti e imbandierati, sotto
un cielo chiazzato di rosso e di blu.
°°°
Martìñ e i campioni che amava
[…] Delle gesta sportive e
dei campioni che amava, egli incarnava i momenti più emotivi con l’eloquio
incantato e passionale che, da irriducibile tifoso e nella compiaciuta
esaltazione, trasfigurava ogni pochezza in una possessiva assunzione ideale
dell’idolo, il campione cui l’estrosità impensabile del gioco fa inventare il
punto vincente per la propria squadra o, in altra disciplina, raggiunge
vittorioso il traguardo col guizzo che lo rende insuperabile.
Così, l’euforia,
nell’occasione, diveniva alimento per le sue brevi e lente movenze,
nell’artifizio di un entusiasmo che gli ricreava energie, fino a poter spingere
fino a Bologna la vecchia pesante bicicletta avuta da suo padre, ed a
sopportare l’astinenza da pasti troppo costosi per i suoi pochi soldi, che
riservava invece al biglietto d’ingresso allo stadio, dove avrebbe ammirato il
«suo» Meazza.
In altra circostanza, per una riunione
su pista, o per il giro d’Italia, o, pur sempre, per una corsa ove Binda avesse
gareggiato, di certo nessuno l’avrebbe trattenuto dall’arrivare, sempre in
bicicletta, fino a Lugo, a Ferrara, a Ravenna, per cogliervi l’immagine
vincente del suo campione, cui avrebbe dedicato, nell’entrante settimana, il
commento esaltante e brioso di cui faceva dono a tutto il paese.
Girardengo e Binda in pista a Lavezzola
Quanto al viaggio, gli andò
un po’ meglio in occasione dell’incontro Italia-Spagna, che la nazionale di
calcio sostenne allo stadio bolognese, nel tardo pomeriggio del 22 giugno 1932.
Fu infatti Alfonso a
caricarlo, assieme a due amici comuni, sulla motocarrozzetta all’epoca
utilizzata per il servizio pubblico del luogo; ma le cose non filarono lisce
fin dal mattino, anche se poi tutto si risolse in ameni episodi da raccontare
al ritorno, in decine e decine di occasioni e nei momenti di un trebbo
rilassato che andava rianimato .
Percorsa la Selice e
imboccata la via Emilia all’uscita di Imola, Martìñ fece capire che la
strada dissestata, dal seggiolino posteriore dove aveva preso posto, gli aveva
«rotto le ossa», sicché Alfonso decise una sosta per trasferirlo sul carrozzino
e consentirgli quindi di sedersi un po’ meglio.
Senonché, corto com’era,
nello scendere dalla parte posteriore, cadde riverso e, istintivamente, per
attutire l’effetto della caduta, protese la mano che reggeva gli occhiali scuri
appena sfilati e finì per piantare il pollice nel vetro, che, ovviamente, se ne
andò in frantumi.
Così tutto quel giorno, per
ripararsi dal sole, non poté che portare gli occhiali con una lente sola,
tenendo socchiuso l’occhio ch’era scoperto, e imparare, così diceva, come si
guarda e si vede con un faro solo.
Appena giunti a Bologna lasciarono la
motocarrozzetta in una rimessa di porta Maggiore. C’era il tempo per una visita
ai parenti, con l’intesa che Alfonso l’avrebbero rivisto solo in serata, mentre
i passeggeri si sarebbero ritrovati in piazza Ravegnana.
Alla
guida della moto di Alfonso Bellettini qui è il figlio Uber, detto Mazalôca. Sono con lui, da sinistra Ŝébio Cesari, Giuanôñ Pulini detto
anche Malabröca, Duardĕñ Rubbi, e Tugnòñ ‘d Ciarĕñ ovvero
Antonio Coatti.
Così fu.
I tre amici si ritrovarono,
accaldati e puntuali, all’ombra dei portici che conducono alle due torri, per
salire, poi, sul tram quasi vuoto a quell’ora, diretti allo stadio e prendervi
posto, dicevano, senza pensare al disagio che avrebbero patito nelle tre ore e
più di attesa, sotto il sole cocente.
All’epoca, sulle vetture
pubbliche si entrava dalla porta anteriore e Martìñ fu l’ultimo a
salire. Gli altri, quando volsero il capo per capire ove avesse preso posto,
s’accorsero che col contraccolpo ricevuto nel rimettersi in corsa, egli era
arretrato fino a schiacciarsi, schiena a schiena, contro una bella ragazza che,
rivolta verso l’esterno, si reggeva al «manettone», in piedi, forse preoccupata
di non provocare pieghe al candido vestito.
Lo videro ammiccare, metà
compiaciuto e metà trasognato a contatto con l’insperato sostegno, quasi
invitando gli amici a cessare i gesti che lo invitavano a togliersi dalla
posizione sconveniente in cui s’era cacciato.
Colà rimase infatti finché
la ragazza non dovette scendere, dopo di che ricadde seduto, a scaricare
l’inopinata eccitazione che non era dovuta solo all’inesperienza di maldestro
viaggiatore.
L’immagine poi della
furbesca occasione venuta a crearsi, venne da lui colorita e ripetuta, nei
giorni seguenti, ai tanti cui non dispiaceva che il giovane s’illudesse
dell’imprevista ed effimera conquista cittadina.
Giunti allo stadio capirono
ben presto di non potersi sedere sulla gradinata, tanto essa era infuocata dal
sole battente, sicché ricorsero necessariamente al noleggio di tre cuscini.
Verso le quindici, quale
intermezzo prestabilito, ebbero inizio le gare di atletica con la presenza di
noti campioni di alcune specialità, provenienti dalla Germania e
dall’Inghilterra, oltre ai migliori atleti d’Italia, fra cui Facelli e Beccali.
Da quel momento la grande
fiumana degli spettatori, iniziò ad invadere lo stadio e il premere progressivo
dei vicini portò i tre amici a ritrovarsi compressi su due soli cuscini, con
relativa occupazione del terzo da parte di uno dei nuovi venuti.
Martìñ, risentito dall’atto di sopraffazione
che lo rendeva ancor più sudato e rattrappito, seppur non fosse a contatto con
l’importuno, sporse la testa dinanzi agli amici che stavano protestando,
redarguendo il fastidioso venuto. Semmai questi fosse stato propenso a
impaurirsi, gli fu gridato che, lui, il gracile Martìñ, se non si fosse
tolto di mezzo, era disposto a cavargli quel pezzo di fegato che sicuramente
aveva in più.
Quello, s’intende, continuò
a guardare con assoluta indifferenza le corse degli atleti e, il nostro, che
aveva compreso di averla sparata grossa, fu preso dal timore che l’altro avesse
capito, sicché quieto quieto si ritrasse a vedere le gare, indi la partita e il
«suo» Meazza sgambettare al cospetto di Zamora, senza più soggiungere parola.
Quando, tornato al paese,
raccontava l’episodio, egli usava assimilare il comportamento dei tre
spettatori filesi a quello dei due cani di Carlotti. Uno di questi, piccolo e
bizzoso, era infatti sempre pronto a molestare chi s’avventurava nei paraggi,
per poi scappare alla prima reazione, quanto meno fino al sopraggiungere di Nik,
suo forzuto protettore: un nero lupo bastardo che, in poco tempo, domava
l’importuno. A differenza di Nik, però, diceva Martìn con ironia,
i suoi due amici non erano né forti, né tanto meno disposti alla più timida
protesta…
La sera ormai sopraggiunta,
li trovò stanchi e stremati dinnanzi alla rimessa, seduti su di un largo
cordolo che divideva la grande circonvallazione in due strade. I tre amici
attesero rilassati Alfonso che tardava, sotto la quiete e la frescura dei platani,
in quell’inconsueto giorno che stava per finire.
Martìn, come d’istinto, tirò fuori di tasca un
po’ di pane che prese a sbocconcellare, giusto per far qualcosa e calmare un
po’ la fame che già si faceva sentire, dato che, come sempre accadeva, a
mezzogiorno aveva mangiato assai poco.
Volle il caso che, di
fronte, su di una sedia ripiegata verso il muro si trovasse una ragazza, forse
figlia del proprietario della rimessa, intenta, lei pure, a godersi il fresco
della sera.
Meravigliata di quell’istintivo, famelico
abbandono, la dirimpettaia non seppe trattenersi ed esclamò:
-
Mangiare poi lì...!
La giovane, peraltro, non
s’era neppure accorta che, così piegata all’indietro, stava mettendo in mostra
qualcosa che andava ben oltre il lecito ad una signorina per bene.
Martìn, a quel punto, non perse l’occasione
per restituire il colpo:
- Senta, io mangio del mio:
la gente passa, guarda e non sente niente; lei mostra del suo, e la gente
passa, guarda ma non gusta niente…, e siamo pari!
Giunse infine Alfonso e il
gruppetto poté riavviarsi per la via Emilia, commentando ognuna delle fasi di
quella gran giornata; lui, certo, rimuginò per tutto il viaggio, pensando a
come avrebbe narrato le vicende sportive cui aveva assistito e tutti gli episodi
vissuti così fuggevolmente. Come sempre si sentiva infervorato dall’opportunità
di parlarne in paese e di poter rivivere nuovamente, e con la sua gente, la
piacevole ed avventurosa giornata. […]
Martìn
è
il giovanotto al centro della foto. A sinistra l’amico Minghinĕñ d’Bigiöla e, a destra e’ Frarišĕñ
°°°