mercoledì 9 ottobre 2024

Un giorno da Professore…

 

La «trafila garibaldina» rivissuta coi ragazzi delle ‘Medie’ di Ravenna

di Agide Vandini

 


Debbo la bella occasione che mi è stata offerta, alle vicende avventurose di un paio di personaggi del mio ultimo romanzo storico.

In «Ottocento romagnolo», infatti, Lorenzo, medico e principale protagonista, assieme alla compagna-infermiera Rosella si offre volontario e accorre alla difesa della Repubblica Romana del 1849, purtroppo osteggiata e infine soffocata nel sangue dalle potenze dell’epoca.

I due seguono il generale Garibaldi alla sua partenza da Roma e non lo abbandonano neppure quando, giunto a San Marino e consegnate le armi, decide di raggiungere Venezia, ultimo baluardo di indipendenza rimasto dalle rivoluzioni del ’48.

Con Garibaldi e con la coraggiosissima Anita essi quindi vivono le tappe della loro fuga nell’entroterra romagnolo, dopo che i barconi garibaldini sono stati intercettati dalle squadre navali austriache.


Nella loro fuga avventurosa (vedi mappa a fianco) fra le Valli dell’epoca essi sfiorano il territorio comunale filese (all’epoca ancora comune indipendente) e attraversano il Reno di fronte a Mandriole.  Sono gli ultimi istanti di vita della povera Anita che Garibaldi perderà appena passato il fiume, mentre i generosi romagnoli, da Sant’Alberto fino al confine con la Toscana, lo nasconderanno dalle persecuzioni clericali ed austriache. Fu questa la famosa «trafila» di uomini fidati che lo salvò da morte certa, una dimostrazione di fede nell’uomo e nella causa dell’Unità d’Italia, una dedizione totale per la quale il generale proverà gratitudine per tutta la vita.

Ebbene, di tutto questo sono stato invitato a parlare, lunedì scorso 7 ottobre, alla 3 B della Scuola Secondaria «V. Randi» di Ravenna. Credo di essermela cavata abbastanza bene  davanti a ragazzi molto interessati e sempre affascinati dalla figura intramontabile dell’Eroe dei Due Mondi.


Una soddisfazione incredibile per me e anche un’emozione unica nel tornare, 65 anni dopo, in una scuola Media e stavolta… dall’altro lato della cattedra…

Un sentito «grazie» agli insegnanti e agli splendidi studenti!

  

PS: Segnalo agli appassionati un sito documentatissimo ove si racconta in modo molto dettagliato la storia della fuga dei garibaldini attraverso le nostre Valli, la morte di Anita, nonché la famosa «trafila» coi nomi di tutti coloro che contribuirono al salvataggio di  Garibaldi:  https://www.capannogaribaldi.it/trafila-garibaldina/ 


giovedì 25 aprile 2024

Il Corriere della Sera ricorda il sacrificio di Agida Cavalli…

 

Nell’Edizione On line del Corriere della Sera di Milano, è comparso stamattina 25 aprile, nella ricorrenza della Liberazione dell’Italia dal Nazi-fascismo, un bell’articolo in ricordo del sacrificio della filese Agida Cavalli, la mia nonna paterna di cui porto orgogliosamente il nome.

L’articolo è nato da una spontanea iniziativa della giornalista che, già documentata in proposito, circa un mese fa ha voluto incontrarmi a Filo, nel luogo in cui si consumò la maledetta spedizione di morte della squadraccia fascista, una vicenda che nel dopoguerra fu raccontata anche da Dario Fo e Renata Viganò.

Devo molta gratitudine a Federica Seneghini – di cui, oltre al bell’articolo, riporto qualche breve nota biografica reperita in rete -, una scrittrice attenta e scrupolosa che mi son sentito di ringraziare anche a nome di mio padre (perso ahimè da tanto tempo) e di tutte le sofferenze di cui ebbe a patire.

Soprattutto, pur toccato emotivamente dal ricordo di una nonna che non ho purtroppo potuto conoscere e alla quale debbo la mia stessa esistenza, io e la mia famiglia non possiamo che continuare a sentirci orgogliosi del suo gesto coraggioso, del suo impulso di donna e di madre, di «una madre della Resistenza» come ebbe a chiamarla Renata Viganò, di un sacrificio che ancora oggi può insegnarci qualcosa.

Grazie Federica, grazie di cuore.

 (cliccare sulle immagini per ingrandire a tutto schermo)


 Questo il link dell’articolo on line:

 https://www.corriere.it/cronache/24_aprile_25/agida-cavalli-storia-1505d65c-e59c-4206-8ce5-d076df606xlk.shtml

 



 

 

martedì 9 aprile 2024

Quando e come ebbe origine il dialetto…

 

Una pregevole trattazione di Giberto Casadio

di Agide Vandini

 



Nel recente numero di Marzo-Aprile della Ludla - Periodico dell’Istituto Fredrich Schurr per la valorizzazione del dialetto romagnolo – il Direttore Editoriale Gilberto Casadio [1] ha fornito una interessantissima ricostruzione dei processi linguistici della nostra penisola, soffermandosi in particolare sul ‘come e quando’ ebbe ad affermarsi il dialetto romagnolo, idioma che si differenziò via via dalla lingua latina d’uso popolare da cui aveva tratto origine.

L’articolo ha il pregio della sintesi e, al tempo stesso, della chiarezza interpretativa, sicché io credo possa soddisfare la curiosità di ognuno di noi e magari anche rimuovere qualche riottosità ancora presente sull’argomento.

Avendo avuto in passato parecchie discussioni fra amici su questi temi ed essendomi talvolta battuto di fronte a tenaci e persistenti luoghi comuni, ho colto la palla al balzo per proporre qui l’intero articolo, convinto far cosa gradita ai lettori del blog  (si consiglia di cliccare su ognuna delle due immagini per ingrandirle a tutto video).


Sono certo che una dissertazione così esauriente verrà molto apprezzata e che tanti amici, cresciuti come me col romagnolo quale lingua madre, saranno ben lieti di saperne un poco di più…

 



[1] Linguista più volte citato in questo blog ed Autore di un prezioso testo di riferimento per gli amanti del dialetto (G. Casadio, Vocabolario Etimologico Romagnolo, Imola, Editrice Mandragora, 2008).

mercoledì 10 gennaio 2024

Quell’epica partita del tempo che fu…

 

1930 - Italia-Spagna al Littoriale sotto gli occhi di Ghéo e Martìñ

di Agide Vandini

 

in ricordo degli amici:

Ibanez, detto e’ Baròñ, Tino, detto Tinëla, Franco, detto Sghégo

compagni di fede e di indimenticabili domeniche allo Stadio

 

Tra le partite di calcio a cui mio padre (classe 1912) ebbe la ventura di assistere allo Stadio di Bologna nella sua giovinezza, questa era una di quelle più importanti. Talvolta me ne parlava da bambino ricordandone particolari circostanze, un po’ per tornare agli ultimi bei ricordi dei suoi 18 anni, un po’, forse, per alimentare nel figliolo la stessa passione per lo sport, per il calcio e per i colori rossoblù [1].

 A questa partita-evento del 1930 papà Ghéo andò con un altro filese, il quasi coetaneo e pur malaticcio Martìñ (Ezio Natali, classe 1908). I due viaggiarono sulla moto guidata da Alfonso Bellettini, il papà di Ibanez ed Uber, alternandosi sul carrozzino laterale e sul seggiolino posteriore. Si trattò di una giornata densa di quadretti memorabili, di momenti avventurosi che, mezzo secolo dopo, furono ripresi e narrati da Libero Ricci Maccarini nell’ambito di un ampio profilo dedicato al geniale fratello di Céncio Natali, l’irripetibile personaggio spentosi, ahimè, a soli 28 anni nel 1936 [2].

 Il babbo era già stato altre volte allo stadio di Bologna, sempre accompagnato con entusiasmo da Tonino Cavalli, il più giovane degli zii materni, sarto colto e brillante che, come gli altri fratelli di nonna Agida (Amilcare ed Eufemia) s’era trasferito a Bologna nel primo ‘900.

Percorrendo talvolta la lunga distanza in bicicletta e soggiornando a Bologna presso gli zii, Ghéo aveva potuto vedere da ragazzino il Bologna di Anzlèin Schiavio e di Geppe Della Valle all’epoca in cui si giocava ancora al campo dello Sterlino.

Tre anni prima, nel ’27, aveva presenziato alla seconda inaugurazione dello Stadio Littoriale, ovvero al leggendario incontro Italia-Spagna in cui capitan Baloncieri - così raccontava - aveva insaccato la palla nella porta del mitico ed imperforabile Ricardo Zamora, detto El Divino, un portiere leggendario che incuteva, negli attaccanti avversari, soggezione e persino timore reverenziale[3].

Dopo quella storica partita erano successe altre cose notevoli nel calcio nostrano. 

Il Bologna del favoloso Schiavio e del mago Felsner s'era confermato squadra fortissima: già campione nel ’25, aveva vinto il suo secondo scudetto nel ‘28-29, ma avrebbe potuto essere il terzo per quel contestato secondo posto di due stagioni prima su cui si discute ancora oggi [4].

C’era stata, poi, l’introduzione del girone unico a partire dal 1929-30, campionato vinto dall’Ambrosiana-Inter, formazione trascinata dal grande Meazza, un fenomeno che, appena ventenne, s’era aggiudicato anche la classifica cannonieri con 31 reti.

L’Italia s’era affermata nella Coppa Internazionale, primo torneo continentale per squadre nazionali disputato in Europa. Era una competizione che vedeva di fronte le compagini dell'Europa centrale e la nazionale italiana: di fatto un campionato europeo giocato nell’arco del triennio 1927-1930. Se l’era aggiudicato l’Italia proprio poche settimane prima, il 22 maggio 1930, grazie alla sonante vittoria di Budapest per 5 a 0 che la elevò al primo posto nella classifica finale [5].

Va infine ricordato che in quello stesso anno 1930 stava per disputarsi, in Uruguay e nell’ormai imminente mese di luglio, la prima Coppa Rimet, il primo mondiale di calcio organizzato fra tante polemiche e rinunce. A quella competizione l’Italia, come tutte le più forti nazioni europee, aveva rinunciato.

È questo il contesto in cui la domenica 22 giugno 1930 era stato organizzato a Bologna l’incontro amichevole-rivincita Italia-Spagna, un match che si preannunciava quanto mai avvincente e che, ovviamente, finì per attirare mio padre (calciatore praticante e fervente tifoso rossoblù) nonché il pur gracile Martìñ (di fede interista e grande ammiratore del sublime Meazza), uno fra i più accaniti appassionati di calcio del paese di Filo.



 

La foto a fianco è proprio della fine anni ’20 e ritrae, nel campo della Pradina i pionieri del calcio filese. In piedi e da sinistra: Giuanòñ Geminiani, Max Barabani, Ghéo Vandini, Pipòñ Fabbri, Sereno Vandini. Gli accosciati sono Ovidio Saiani ed Ezio Natali (Martìñ). Seduti, da sinistra: Raflòñ Vandini, Catóna Siroli (l’asso dell’epoca) e Pipĕñ Toschi.

 

 

Chi voglia godersi il clima e le avventure ‘pre’ e ‘post’ partita dei nostri giovanotti, non ha che da leggersi, qui in appendice, il brano «Martìñ e i campioni che amava», tratto dal capitolo di Libero, un racconto ovviamente basato sulla narrazione dei protagonisti. Ciò che è sempre mancato in quella bella storia paesana è però la stretta cronaca sportiva, ossia il resoconto di come quella partita finì sul campo, quale ne fu l’esito e l’andamento, ‘dettagli’ di cui, anche nelle divertite rimembranze del dopoguerra, non si parlò praticamente mai.

Peraltro, per uno sfortunato refuso di stampa, il testo di Libero reca una datazione errata dell’evento. Quella esatta l’ho appresa in questi giorni dal testo di Franco Cervellati [6]. È venuto così il momento di colmare la lacuna, col materiale che ho potuto reperire e che mi par giusto condividere coi lettori di questo blog.

 

Il tabellino [7]

 

 

La cronaca

La partita prese una svolta emozionante fin dall’inizio allorché, al 3', l'Italia segnò il primo gol con Costantino. La Spagna però non si arrese e al 30', Regueiro riportò il risultato sull'1-1. A quel punto l'Italia non perse determinazione e al 40' riprese il comando grazie a un altro gol di Costantino, davvero nel suo miglior momento e capace di incantare il pubblico con le sue prestazioni.

Sul punteggio di 2-1 l’Italia, ad inizio secondo tempo, operò due sostituzioni. Entrarono Monzeglio per Rosetta e Martin per Pitto, al fine di portare freschezza in squadra. Nonostante gli sforzi dell'Italia, tuttavia, fu la Spagna a trovare il gol del pareggio al 72', ancora con Regueiro, che realizzò la sua seconda rete personale.

Mentre la partita rimaneva in bilico ed entrambe le squadre cercavano di ottenere la vittoria, la Spagna trovò il gol decisivo con Vantoira, all'87', quasi a fine partita.

Sul risultato di 3-2 a favore degli ospiti, gli azzurri tentarono un ultimo sforzo, ma la Spagna riuscì a difendersi bene e a mantenere il vantaggio fino al fischio finale.

Nonostante la delusione per la sconfitta, l'Italia poté sentirsi orgogliosa della prestazione contro una forte squadra come la Spagna. La partita aveva dimostrato il talento e la determinazione di entrambe le squadre ed aveva offerto un grande spettacolo agli appassionati di calcio presenti allo Stadio [8].

 

La rivista

Curiosando in rete ho potuto acquistare per pochi euro una preziosa rivista d’epoca, ovvero «La Domenica Sportiva» - Settimanale illustrato de “La Gazzetta dello Sport” datata 29 Giugno 1930. L’evento di quei giorni viene trattato a fondo con foto e commenti interessantissimi, tre pagine che qui riporto per intero a beneficio dei lettori.

(per un’agevole lettura dei testi consiglio il clic su ogni immagine, per ingrandirle a tutto schermo)



 


 

Il filmato :

In rete è fruibile anche un interessantissimo e nitido filmato della partita girato dall’Istituto Luce. Dura 3’ e 49” e propone molte panoramiche dedicate alla gara, agli spalti gremiti, al pubblico osannante, nonché all’imponente ed appena eretta torre di Maratona. Davanti a quest’ultima campeggia - come da fermo immagine - la bronzea statua equestre del Duce Mussolini, statua poi abbattuta alla caduta del fascismo[9].

 

Cliccare qui per prendere visione del breve filmato

 °°°

 

 La dedica:

Mi è parso appropriato dedicare questo ricordo calcistico, ambientato nello stadio amico e nei fasti del tempo che fu, a tre compagni indimenticabili coi quali ho tante volte frequentato quello stesso luogo, seguendo in questo le orme del mio amato genitore.

 

Il primo a cui mi sento di dedicare queste righe è il filese Ibanez Bellettini, detto e’ Baròñ, un caro amico che ci ha lasciato qualche anno fa e del quale raccontai alcune belle avventure in uno dei miei libri di racconti paesani [10]: era un grande tifoso, elegante quanto sanguigno. Se devo scegliere fra i tanti ricordi di gioie e sofferenze che vivemmo assieme, ce n’è uno soprattutto che mi emoziona ancora. È quello del famoso rigore di Bordon, centravanti dal piede ruvido e ben poco prolifico, un gol messo a segno nel rocambolesco pareggio casalingo per 2 a 2 con l’imbattuto Perugia. Fu un tiro ‘liberatorio’ che, nel lontano anno 1979, ci salvò miracolosamente dalla retrocessione, grazie alla contemporanea sconfitta del Vicenza a Bergamo.

Avvenne all’ultima di campionato, dopo che la formidabile squadra umbra era andata in vantaggio per 2 a 0. Salvatore Bagni era stato il mattatore di giornata fino a che era stato messo fuori combattimento da una legnata provvidenziale di Cresci. Una flebile speranza aveva poi preso corpo fra i tifosi petroniani dopo un insperato, ma vincente, contropiede di «Mastallino». Al riposo si era andati sull’1 a 2, un risultato che, comunque, significava “serie B”.

 Ad inizio secondo tempo il cielo si squarciò e l’arbitro decretò, proprio sotto la nostra curva, un rigore potenzialmente liberatorio a nostro favore. Fra gli scongiuri di tutto lo stadio se ne incaricò Bordon, attaccante che, quanto a realizzazioni, in tutto il campionato si era fatto valere ben poco…. Fatto sta che il pur spavaldo Barone non ebbe neppure il coraggio di guardare quanto sarebbe accaduto sotto di noi.

Mi disse in un orecchio: «Io, caro mio… Mi giro dall’altra parte… Mi dirai poi tu…»

Fu invece il boato della curva rossoblù ad annunciare l’esito gaudioso… Da quel momento seguimmo entrambi con apprensione la voce gracchiante delle radioline che aggiornava il risultato di Bergamo e la sistematica melina che aveva luogo in campo, una sceneggiata che durò fino alla fine della partita. Confortati dai risultati che stavano pervenendo, nessuna delle due squadre volle più attraversare la metà campo: chi per salvare l’imbattibilità, chi per salvarsi dalla caduta in serie B. La retrocessione, tuttavia, fu soltanto rimandata di un paio d’anni, ossia al 1982, l’anno magico di Robertino Mancini, 16enne del vivaio che il Barone chiamava il «bambin Gesù», verso il quale lanciava grida ed accorate invocazioni che galvanizzavano tutta l’Andrea Costa.

 

Come non accostare al Barone il carissimo e indimenticato Tinëla Leoni, filese dall’immenso cuore rossoblù, sempre in pena per la sua squadra della quale chiedeva notizie fresche in continuazione, a volte facendo la spola fra casa mia ed il distributore di Ibanez e di Maurizio, babbo e figlio, peraltro, sempre fiduciosi all’estremo, sempre convinti di darne tre ai malcapitati avversari.

A Tino, al suo personaggio, all’amore per il rossoblù e per l’azzurro filese, sono dedicati due articoli di questo blog, con una foto tanto suggestiva da potersi definire ‘storica’ ed un esilarante brano dialettale di Orazio Pezzi [11].

 

Infine l’ultimo mio pensiero rossoblù va all’argentano Franco Buldrini, detto Sghégo in gioventù, un vecchio amico che se n’è andato pochi giorni fa: ex terzino di lotta e di governo, bolognese nell’anima come pochi, un vero ‘seguace’ della palla rotonda che amava visceralmente. Ottimo osservatore del gioco, della tecnica e della tattica, era davvero un piacere scambiare opinioni con lui, nonché commentare ogni partita al ritorno dallo stadio. Una volta, dopo una partita notturna, forse perché troppo concentrati sui nostri discorsi, ci inzuccammo con l’auto ad un incrocio di Molinella, ma furono danni soltanto materiali, tutto si aggiustò e si continuò imperterriti nella nostra passione, esattamente come prima.

È così che andò, fino ad una quindicina di anni fa quando il sottoscritto, abbonato allo stadio da una vita, sopraffatto dal tifo becero e violento, nonché da un calcio sempre più attratto dal business e sempre meno dall’aspetto sportivo, decise che era il momento di starsene a casa.


Lui, no. Lui continuò ancora fino a che la salute, ahimè divenuta precaria, glielo permise.

 

 

L’amico Franco Buldrini

 

 

Pur da razionalista e non credente, amo pensare che, questi cari amici, ora mi stiano aspettando ai margini di verdi e sterminate praterie, gremite di bimbi chiassosi che giocano a palla, tutti e tre sorridenti, ammiccanti e imbandierati, sotto un cielo chiazzato di rosso e di blu.

 

 

°°°

 

Martìñ e i campioni che amava

 

Brano tratto dal racconto MARTÌN - Ezio Natali (1908-1936) in

L. Ricci Maccarini, I racconti del «Palazzone», testo curato con note ed integrazioni

da Agide Vandini, Longastrino, CDS Edizioni, 2022, pp. 15-29].

 

 

[…] Delle gesta sportive e dei campioni che amava, egli incarnava i momenti più emotivi con l’eloquio incantato e passionale che, da irriducibile tifoso e nella compiaciuta esaltazione, trasfigurava ogni pochezza in una possessiva assunzione ideale dell’idolo, il campione cui l’estrosità impensabile del gioco fa inventare il punto vincente per la propria squadra o, in altra disciplina, raggiunge vittorioso il traguardo col guizzo che lo rende insuperabile.

Così, l’euforia, nell’occasione, diveniva alimento per le sue brevi e lente movenze, nell’artifizio di un entusiasmo che gli ricreava energie, fino a poter spingere fino a Bologna la vecchia pesante bicicletta avuta da suo padre, ed a sopportare l’astinenza da pasti troppo costosi per i suoi pochi soldi, che riservava invece al biglietto d’ingresso allo stadio, dove avrebbe ammirato il «suo» Meazza.

In altra circostanza, per una riunione su pista, o per il giro d’Italia, o, pur sempre, per una corsa ove Binda avesse gareggiato, di certo nessuno l’avrebbe trattenuto dall’arrivare, sempre in bicicletta, fino a Lugo, a Ferrara, a Ravenna, per cogliervi l’immagine vincente del suo campione, cui avrebbe dedicato, nell’entrante settimana, il commento esaltante e brioso di cui faceva dono a tutto il paese.


 

 

Girardengo e Binda in pista a Lavezzola

 

 

 

 

Quanto al viaggio, gli andò un po’ meglio in occasione dell’incontro Italia-Spagna, che la nazionale di calcio sostenne allo stadio bolognese, nel tardo pomeriggio del 22 giugno 1932.

Fu infatti Alfonso a caricarlo, assieme a due amici comuni, sulla motocarrozzetta all’epoca utilizzata per il servizio pubblico del luogo; ma le cose non filarono lisce fin dal mattino, anche se poi tutto si risolse in ameni episodi da raccontare al ritorno, in decine e decine di occasioni e nei momenti di un trebbo rilassato che andava rianimato [12].

Percorsa la Selice e imboccata la via Emilia all’uscita di Imola, Martìñ fece capire che la strada dissestata, dal seggiolino posteriore dove aveva preso posto, gli aveva «rotto le ossa», sicché Alfonso decise una sosta per trasferirlo sul carrozzino e consentirgli quindi di sedersi un po’ meglio.

Senonché, corto com’era, nello scendere dalla parte posteriore, cadde riverso e, istintivamente, per attutire l’effetto della caduta, protese la mano che reggeva gli occhiali scuri appena sfilati e finì per piantare il pollice nel vetro, che, ovviamente, se ne andò in frantumi.

Così tutto quel giorno, per ripararsi dal sole, non poté che portare gli occhiali con una lente sola, tenendo socchiuso l’occhio ch’era scoperto, e imparare, così diceva, come si guarda e si vede con un faro solo.

Appena giunti a Bologna lasciarono la motocarrozzetta in una rimessa di porta Maggiore. C’era il tempo per una visita ai parenti, con l’intesa che Alfonso l’avrebbero rivisto solo in serata, mentre i passeggeri si sarebbero ritrovati in piazza Ravegnana.


Alla guida della moto di Alfonso Bellettini qui è il figlio Uber, detto MazalôcaSono con lui, da sinistra Ŝébio Cesari, Giuanôñ Pulini detto anche Malabröca, Duardĕñ Rubbi, e Tugnòñ ‘d Ciarĕñ ovvero Antonio Coatti.

 

 

Così fu.

I tre amici si ritrovarono, accaldati e puntuali, all’ombra dei portici che conducono alle due torri, per salire, poi, sul tram quasi vuoto a quell’ora, diretti allo stadio e prendervi posto, dicevano, senza pensare al disagio che avrebbero patito nelle tre ore e più di attesa, sotto il sole cocente.

All’epoca, sulle vetture pubbliche si entrava dalla porta anteriore e Martìñ fu l’ultimo a salire. Gli altri, quando volsero il capo per capire ove avesse preso posto, s’accorsero che col contraccolpo ricevuto nel rimettersi in corsa, egli era arretrato fino a schiacciarsi, schiena a schiena, contro una bella ragazza che, rivolta verso l’esterno, si reggeva al «manettone», in piedi, forse preoccupata di non provocare pieghe al candido vestito.

Lo videro ammiccare, metà compiaciuto e metà trasognato a contatto con l’insperato sostegno, quasi invitando gli amici a cessare i gesti che lo invitavano a togliersi dalla posizione sconveniente in cui s’era cacciato.

Colà rimase infatti finché la ragazza non dovette scendere, dopo di che ricadde seduto, a scaricare l’inopinata eccitazione che non era dovuta solo all’inesperienza di maldestro viaggiatore.

L’immagine poi della furbesca occasione venuta a crearsi, venne da lui colorita e ripetuta, nei giorni seguenti, ai tanti cui non dispiaceva che il giovane s’illudesse dell’imprevista ed effimera conquista cittadina.

 

Giunti allo stadio capirono ben presto di non potersi sedere sulla gradinata, tanto essa era infuocata dal sole battente, sicché ricorsero necessariamente al noleggio di tre cuscini.

Verso le quindici, quale intermezzo prestabilito, ebbero inizio le gare di atletica con la presenza di noti campioni di alcune specialità, provenienti dalla Germania e dall’Inghilterra, oltre ai migliori atleti d’Italia, fra cui Facelli e Beccali[13].

Da quel momento la grande fiumana degli spettatori, iniziò ad invadere lo stadio e il premere progressivo dei vicini portò i tre amici a ritrovarsi compressi su due soli cuscini, con relativa occupazione del terzo da parte di uno dei nuovi venuti.

Martìñ, risentito dall’atto di sopraffazione che lo rendeva ancor più sudato e rattrappito, seppur non fosse a contatto con l’importuno, sporse la testa dinanzi agli amici che stavano protestando, redarguendo il fastidioso venuto. Semmai questi fosse stato propenso a impaurirsi, gli fu gridato che, lui, il gracile Martìñ, se non si fosse tolto di mezzo, era disposto a cavargli quel pezzo di fegato che sicuramente aveva in più.

Quello, s’intende, continuò a guardare con assoluta indifferenza le corse degli atleti e, il nostro, che aveva compreso di averla sparata grossa, fu preso dal timore che l’altro avesse capito, sicché quieto quieto si ritrasse a vedere le gare, indi la partita e il «suo» Meazza sgambettare al cospetto di Zamora, senza più soggiungere parola.

Quando, tornato al paese, raccontava l’episodio, egli usava assimilare il comportamento dei tre spettatori filesi a quello dei due cani di Carlotti. Uno di questi, piccolo e bizzoso, era infatti sempre pronto a molestare chi s’avventurava nei paraggi, per poi scappare alla prima reazione, quanto meno fino al sopraggiungere di Nik, suo forzuto protettore: un nero lupo bastardo che, in poco tempo, domava l’importuno. A differenza di Nik, però, diceva Martìn con ironia, i suoi due amici non erano né forti, né tanto meno disposti alla più timida protesta…

 

La sera ormai sopraggiunta, li trovò stanchi e stremati dinnanzi alla rimessa, seduti su di un largo cordolo che divideva la grande circonvallazione in due strade. I tre amici attesero rilassati Alfonso che tardava, sotto la quiete e la frescura dei platani, in quell’inconsueto giorno che stava per finire.

Martìn, come d’istinto, tirò fuori di tasca un po’ di pane che prese a sbocconcellare, giusto per far qualcosa e calmare un po’ la fame che già si faceva sentire, dato che, come sempre accadeva, a mezzogiorno aveva mangiato assai poco.

Volle il caso che, di fronte, su di una sedia ripiegata verso il muro si trovasse una ragazza, forse figlia del proprietario della rimessa, intenta, lei pure, a godersi il fresco della sera.

 Meravigliata di quell’istintivo, famelico abbandono, la dirimpettaia non seppe trattenersi ed esclamò:

   -  Mangiare poi lì...!

La giovane, peraltro, non s’era neppure accorta che, così piegata all’indietro, stava mettendo in mostra qualcosa che andava ben oltre il lecito ad una signorina per bene.

Martìn, a quel punto, non perse l’occasione per restituire il colpo:

- Senta, io mangio del mio: la gente passa, guarda e non sente niente; lei mostra del suo, e la gente passa, guarda ma non gusta niente…, e siamo pari!



Giunse infine Alfonso e il gruppetto poté riavviarsi per la via Emilia, commentando ognuna delle fasi di quella gran giornata; lui, certo, rimuginò per tutto il viaggio, pensando a come avrebbe narrato le vicende sportive cui aveva assistito e tutti gli episodi vissuti così fuggevolmente. Come sempre si sentiva infervorato dall’opportunità di parlarne in paese e di poter rivivere nuovamente, e con la sua gente, la piacevole ed avventurosa giornata. […]

 

 

Martìn è il giovanotto al centro della foto. A sinistra l’amico Minghinĕñ d’Bigiöla e, a destra e’ Frarišĕñ  

 

 

 

 

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[1] Pochissimi mesi dopo quella partita, infatti, la prima gioventù di mio padre finì nelle galere del regime per attività antifascista (novembre 1930). Processato con altri 21 compagni nell’aprile del ’31 fu condannato alla pena di 18 mesi di carcere (interamente scontati) e 3 anni di vigilanza speciale (in parte condonati).

[2] Si tratta di memorie che ho voluto rinverdire pochi mesi fa in L. Ricci Maccarini, I racconti del «Palazzone», testo con note ed integrazioni curato da Agide Vandini, Longastrino, CDS Edizioni, 2022, pp. 15-29.

[3] La partita fu disputata il 29 maggio 1927, alla presenza del Re Vittorio Emanuele III e dell’Infante di Spagna, Principe Ereditario Don Alfonso. Vinse l’Italia per 2 a 0. Queste le formazioni: ITALIA: Gianni (Bologna); Bellini (Inter), Caligaris (Casale), Genovesi (Bologna), Bernardini (Inter), Giordani (Bologna); Munerati (Juventus), Baloncieri (Torino), Libonatti (Torino), Della Valle (Bologna), Levratto (Genoa). SPAGNA: Zamora; A.Olaso, Zaldua; Prats, Gaborena, Peña; Sagarzazu, Regueiro, Yermo, Echeveste, L.Olaso. MARCATORI: Baloncieri (ITA) 31’ p.t, autorete Prats 5’ s.t. (F. Cervellati, Uno stadio una città, Torrazza Piemonte, Amazon I.L., 2023, p. 45).

[4] Lo scudetto del 1926-27 fu infatti tolto al Torino per illecito commesso durante il derby con la Juventus, illecito di cui riferì il reo confesso Allemandi. Per gli scrupoli di Arpinati, quello scudetto, incredibilmente, non fu mai assegnato al Bologna, giunto secondo, come invece è poi avvenuto in anni a noi vicini per casi analoghi.

[6] F. Cervellati, op. cit., p. 54. L’autore riporta tutte le partite disputate in quel periodo dalla Nazionale Italiana nel nuovo Stadio di Bologna.

[9] Franco Cervellati riporta nel suo testo come fu utilizzato lo stadio negli anni della guerra e racconta per filo e per segno come poi avvenne a furor di popolo e in più tempi la rimozione della statua e dei simboli del regime (dapprima la figura del Duce, poi, a Liberazione avvenuta, il pomposo cavallo) (op.cit., pp. 63-66). Mentre la testa bronzea del dittatore pare sia ancora conservata da qualche parte, Il metallo rimosso del cavallo fu utilizzato nel dopoguerra per la fusione di due statue (il Partigiano e la Partigiana) affidate allo scultore Luciano Minguzzi. Furono collocate in un primo tempo nel Parco della Montagnola, poi trasferite nell’attuale sede del giardino di Porta Lame, «teatro della sanguinosa battaglia del 7 novembre 1944, uno degli episodi della Resistenza bolognese contro le azioni militari delle truppe tedesche e repubblichine»

[10] Si veda «Narratori e sportivi d’osteria» in A. Vandini, La valle che non c’è più, Faenza, Edit, 2006, pp. 47-50

[11] V. In bocca al lupo vecchio Bologna!!! - Un augurio speciale da due... Leoni di Agide Vandini (25.08.12): http://filese.blogspot.it/2012/08/in-bocca-al-lupo-vecchio-bologna_24.html

e Tinèla e la partita delle banane - Un fàt e’ véra, in dialèt, cuntê da Orazio d’Pezzi (01.08.15):

http://filese.blogspot.it/2015/08/tinela-e-la-partita-delle-banane.html

[12] Alfonso Bellettini, padre di Ibanez ed Uber, aveva la sua officina nei pressi della Cà ‘d S-ciflĕñ. Nel settembre del ‘44 fu uno dei dieci filesi presi in ostaggio e trucidati dai nazifascisti, evento a cui, più oltre nel testo, è dedicato apposito capitolo. Quanto ai due compagni di viaggio, uno di certo doveva essere mio padre Guerriero, detto Ghéo che tanto raccontò anche a me di quella storica partita e delle singolari «gesta» dell’amico Martìn. La motocarrozzetta era una Harley-Davidson acquistata a metà degli anni ’20 alla quale, all’occorrenza, Alfonso affiancava il carrozzino.

[13] Luigi Facelli (1898-1991) ostacolista e velocista; vantò tre vittorie ai campionati inglesi sulle 440 iarde ostacoli e 17 titoli italiani, di cui 11 sui 400 metri ostacoli. Beccali Luigi (1909-1990), detto Ninì, grande mezzofondista, fu campione olimpico a Los Angeles 1932 e campione europeo a Torino 1934 nei 1500 metri piani.