Compendio di storia
del territorio filese e delle sue vie di comunicazione
di
Agide Vandini
[segue dalla
Parte Prima]
4.
Modifiche della dipendenza amministrativa: come quando e perché
Con la perdita di Argenta e del
suo territorio la Riperia Padi viene
a rivestire per il ravennate ancor più importanza strategica. Nella seconda
metà del Trecento i Da Polenta erigono una Bastia sul Po di Primaro, allo
sbocco del fossato Zaniolo, ove riscuotono i diritti di passaggio sul fiume (il
rastellum, 1383).
Gli Estensi interessati a quei
profitti e intenzionati ad espandersi verso sud, vogliono fare della Bastia scurtapassi il loro caposaldo difensivo,
e trattano a più riprese coi Da Polenta la nostra Riperia. Tentano una permuta nel 1394 dando in cambio nientemeno
che Bagnacavallo, Cotignola e 6000 scudi, ma l’accordo viene annullato da un
arbitrato appena pochi anni dopo (1398).
A seguito dei rovesci dello
scontro militare con Venezia (1404) i Signori di Ferrara, avuta in assegnazione
Argenta a titolo definitivo (1421), si assicurano anche la Riviera e portano,
nel nostro territorio, la linea di confine al Primaro (1433).
E’ questo l’atto che segna il
parziale cambio di giurisdizione del territorio. La parte sinistra della
Riviera entra nel Ducato Estense in forma autonoma da Argenta, ne diventa un
caposaldo difensivo e militare,
ma i centri abitati di Filo e Longastrino, distribuiti fra le due rive del
fiume (si veda il Disegno veneziano del 1460), vengono scomposti in due
Comunità distinte, una ravennate e l’altra di dipendenza ferrarese: una
separazione che, come ben sappiamo, si trascina ancora oggi.
Archivio Storico Venezia, disegno 177; metà del sec. XV
(1462)
L’appartenenza delle due sponde
non muterà infatti all’estinzione della casa d’Este (1598) ed al conseguente incameramento del Ducato nello Stato
Pontificio, ove ne diventa la «Provincia ferrarese» con alle proprie dipendenze
la Riviera di sinistra Primaro.
La stessa sorte toccherà al Lughese ed alle altre quattrocentesche conquiste
romagnole, territori tuttavia che Ferrara perderà con l’Unità d’Italia.
A Filo intanto, sul finire del
Medioevo, si materializza un nuovo centro cittadino in posizione
intermedia fra Filvecchio e Cà Salvatiche,
a poca distanza dall’Hospitale di S.
Giovanni in Villa Lombardia, toponimo
quest’ultimo che poco a poco scompare dai documenti, inglobato in quello di Filo.
Viene edificata la cinquecentesca chiesa di Sant’Agata con a fianco l’aitante
torre campanaria: è la bella chiesetta demolita nel 1929 in epoca fascista e malamente
sostituita dall’odierno chiesone senza campanile.
Il
funzionamento della Podestaria della Riviera, articolata nelle
tre comunità (o Comuni) di Filo, S. Biagio e Longastrino, si deduce da un
documento di fine
‘700:
Comuni della Riviera di Filo. Loro
Podestà nato è il Signor Governatore di Argenta, e così il Cancelliere
Criminale; ma il Notaro Civile di detta Riviera si deputa privativamente dal
Signor Tesoriere di Ferrara. Ha questa Riviera un’estensione di circa diciotto
miglia di lunghezza, ma di poca in larghezza, perché il territorio argentano,
poi le valli Camerali di Comacchio molto la restringono. Confina a Levante col
Ravegnano, e colle suddette valli, a Ponente coll’Argentano, a mezzodì col Po
d’Argenta, ed a Tramontana colle suddette Valli Camerali. Nello Spirituale è
soggetta al Vicario di Ravenna residente in Argenta. Sono tre ville che la
compongono, ma la principale si è Filo, che le ha dato il nome. Ogni una di
esse si eleggono dal Loro Consiglio, unito in un solo alla presenza del signor
Podestà, due Consoli, che governano e durano un anno.
4.
Trasformazioni del territorio e delle sue vie di comunicazione
L’acqua rimane l’elemento
dominante del paesaggio ai due lati del Primaro (Po vecchio) fino ai
prosciugamenti su larga scala che hanno inizio a fine Settecento. Fino ad
allora il fiume, con portata sempre minore, scorre a fianco della strada
provinciale che oggi ne percorre l’argine sinistro (Via Di Sotto poi Comunale /
Provinciale). Da quella parte si distendono verso nord, a perdita d’occhio,
le valli salate le cui propaggini lambiscono il paese e le sue borgate.
Alla destra del Po, nella parte
tuttora ravennate, gli scenari mutano nel tempo.
A cavallo del Millennio, all’epoca
di Bergunzo e dei suoi coloni, la portata del fiume è più o meno quella dell’odierno
Po Grande, portata che subisce una prima drastica riduzione con la rotta di
Ficarolo (1152), quando il corso maggiore delle acque si sposta verso nord. Il
Primaro non ha arginature alla sua destra, sicché in quella direzione le acque
tracimano ad ogni piena, favorendo via via nei terreni allagati la progressiva
«bonifica per colmata». Ai due lati dell’alveo ristretto scorrono le due
«alzaie», ossia le strade d’alaggio utilizzate dagli animali da tiro per il
traino dei natanti. L’alzaia di sinistra, di cui restano alcuni brevi tratti,
verrà chiamata più tardi la Via Di Sopra,
quella di destra la «Via di Ravenna» e poi «Via Bassa».
Il ridursi della portata ed il rialzo
dei terreni adiacenti provoca l’allontanamento delle Valli Ravegnane di destra
Po, ove i torrenti appenninici sfogano le loro acque, riducendone poco a poco
il bacino. Vengono messi a coltura i campi che ne scaturiscono e si creano
allora condizioni di abitabilità anche nella riva destra del Primaro di fronte
al paese. Il processo pare divenire irreversibile allorché viene decisa l’immissione
nel Po del Santerno (1460), del Senio (1537) e del Lamone (1504),
rispettivamente alla Bastia, a valle di Longastrino e di fronte a Sant’Alberto.
[v.
Cartografia: Tavole 05 e 07 -08]
Le paludi di destra Po, si veda il
disegno veneziano (1460), in parte si prosciugano, ma, vuoi per l’accresciuto
interrimento del fiume, vuoi forse per ottenere nuove colmate, i fiumi
appenninici ad inizio ‘600 sono nuovamente distolti dal Primaro e fatti
spagliare nelle campagne, dove rialimentano le Valli d’acqua dolce.
La situazione, però, dura poco. Vista
l’impossibilità di tornare ad una accettabile navigabilità del fiume, si pensa
a nuove soluzioni col taglio Caetano a nord di Sant’Alberto (1606) [v. Cartografia
Fig.09] e la
reintroduzione in Po del Senio e del Santerno (1625-1626), quest’ultimo tramite
una «Voltana» che lo conduce da San Bernardino al Passetto [v. Cartografia Tavole
05-06].
In quello stesso periodo fra Cà
Selvatiche e Sabbionara sorgono le Grandi Chiaviche Paoline ove si vorrebbero
convogliare le acque del Po nelle Valli del Mezzano, ma l’intento fallisce:
alla prima piena, l’apertura delle paratie provoca disastri immani.
A Filvecchio, nella seconda metà del Cinquecento, il Marchese
Bentivoglio utilizza la vecchia chiavica sul Canale dei Ravennati per un grande progetto di utilizzo dell’acqua
del Po ai fini industriali ed agricoli.
Mappa Vaticana
(1580)
Sorge il Molino che dà linfa e un nuovo nome alla borgata e che accende
interminabili liti coi comacchiesi. Essi non tollerano acque torbide nelle
valli, temono per sale ed anguille già in pericolo per il progressivo
deteriorarsi dell’Argine del Mantello,
vedi Mappa Vaticana (1580), l’istmo che da qualche tempo unisce Filvecchio con Paviero, a protezione (come un mantello
appunto) delle valli salate di Comacchio da quelle meno saline del Campo del Mezzano.
L’acqua derivata dal Po, dopo
aver fatto girare le macine del Molino, prima di immettersi in valle del
Mezzano nei pressi della Pioppa,
alimenta una delle prime risaie del territorio (la coltura del riso inizia in
Italia a metà Quattrocento). Un grande edificio ospita, alla Möta, il pillatore da’ Risi (pileria, essiccatoio e magazzino): è la Risara che dà il nome alla valle
circostante.
Alla parte destra, invece, verso
Ravenna, il fiume continua a sfogare per apposite «bocche» le acque di piena
nelle Valli Ravegnane, prima di «San Bernardino», poi, una volta contenute dalla
deviazione del Santerno, «di Filo e Longastrino».
La carta
Napoleonica 1812-1814
Le premesse per il prosciugamento
e la progressiva bonificazione del territorio vengono poste dalla messa in
opera di rettificazioni fluviali che l’innalzamento dell’alveo ha reso
indispensabili, soprattutto dopo l’immissione delle acque del Reno nel Po di
Primaro a Traghetto (Cavo Benedettino, sec. XVIII).
Sono tre i drizzagni fra Argenta e Sant’Alberto; la diversione più ampia,
quella che ci riguarda e che va dalla Bastia al Passetto (osservabile nella carta
napoleonica 1812-1814), si completa nel 1782 e reca con sé il definitivo
spostamento, di fronte a Filo, della foce del Santerno. Nei pressi di
quest’ultima prende corpo il villaggio di Chiavica di Legno,
mentre, a partire dal primo ‘800, grazie a nuove opere idrauliche, la palude
fra il Po vecchio
e il Po nuovo viene prosciugata,
popolata e coltivata. Calano in quegli anni, dal ravennate e dalla Romagna
estense, coloni e braccianti che vengono ad incrementare, e non di poco, la
popolazione di Filo.
5.
La questione dei territori fra Po Vecchio e Po Nuovo (poi Reno).
I mutamenti apportati al
territorio forniscono il pretesto per rimettere in discussione il confine
ravennate-ferrarese all’indomani dell’Unità d’Italia (1861). Negli anni della II°
Guerra d’Indipendenza (1859) il Governatore delle Romagne, Luigi Farini, aveva
disposto la fusione di alcuni comuni minori in quelli maggiori. Il Comune di
Filo, divenuto semplice appodiato nel
1831, ne fa le spese. I rivaroli non
ne vogliono sapere di fondersi in Argenta, ma ottengono soltanto di mantenere
rendite e passività separate dal capoluogo designato.
Gli altri Comuni della Romagnola estense, ferraresi anch’essi da circa quattro
secoli, non toccati dal provvedimento, col formarsi delle province del Regno
chiedono ed ottengono di tornare in Provincia di Ravenna e di riportare la
linea di confine al Primaro.
In un primo tempo pare che il
nuovo confine debba intendersi lungo la linea del fiume nuovo e che questo
comporti, per la Provincia di Ferrara e il Comune di Argenta, l’acquisizione
dei territori di Filo e Longastrino fra il Po vecchio e il Po nuovo. Sono terre
trasferite da poco (1815) dal Comune di Ravenna a quello nascente delle
Alfonsine. Molte autorità sembrano orientate in tal senso, ma la questione in
quei primi anni di Unità, quando ancora la capitale è a Torino, non appare né
chiara, né definitiva.
Ne nasce (1862) un’accesa
disputa: mesi di liti e contestazioni fra romagnoli e ferraresi, una serie di
pronunciamenti contraddittori; i proprietari delle terre interessate si
rifiutano di pagare le tasse agli argentani, finché, dietro la pressione di
potenti deputati ravennati (Rasponi) si decide il mantenimento dello status quo, lasciando il confine che
ci riguarda al Po vecchio (1863). Argenta e il suo sindaco Giuseppe Vandini
restano con un pugno di mosche in mano, vanno su tutte le furie, il consiglio
comunale viene addirittura sciolto e la questione viene di fatto ibernata,
rimandata alle «calende greche».
Non se ne parla neppure in
occasione degli aggiustamenti territoriali d’epoca Fascista, perché, così
riporta Vespignani, Alfonsine evita rivendicazioni, allargamenti e
razionalizzazioni per il suo comune sbilenco, nel timore di «revanche»
argentane. Lì perciò, in ghiacciaia, la questione ancora giace e, date le
implicazioni non solo burocratiche, lì è assai probabile che rimanga per
sempre.
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L’Unità d’Italia e la fusione con
Argenta creano però le condizioni per metter mano alla bonifica del territorio paludoso
alla sinistra del fiume, liberandolo dagli acquitrini fino alla linea
dell’Argine Circondario Pioppa. Si prosciugano le Valli Brancole e la Valle
Risara ed il radicale mutamento ambientale in gran parte si compie: dal Po
Nuovo alle Valli di Comacchio, le paludi non ci sono più.
Un territorio da sempre dominato dalle acque e
che per tanti secoli ha tratto linfa vitale dal Grande Fiume, si ritrova ormai
convertito, ai due lati del vecchio alveo abbandonato, ad una economia
prevalentemente agricola, col destino tutto legato alla terra, un destino che
si completerà con gli ulteriori e successivi incrementi della superficie
bonificata.
Il totale prosciugamento delle
acque salate della valle del Mezzano, che ci consegna il territorio così com’è
oggi, avviene con le bonifiche degli anni ’30 e ’60 del Novecento.
***
Appendice
alla Parte Seconda
Dalla prima delle due Tavole a fianco
(05) si può facilmente desumere il vecchio corso del Santerno che, in epoca
Estense, ne condusse la foce alla Bastia (1460). Fino ad allora le sue acque,
così come quelle del Senio e del Lamone, si immettevano nelle Valli Ravegnane
d’acqua dolce, vestigia dell’antica Padusa, dette anche «Valli di San
Bernardino» e, più tardi, in estensione più ridotta, «Valli di Filo e
Longastrino».
Alle Tavole 07 e 08 si possono osservare le
prime foci in Po del Senio e del Lamone in epoca Estense, la prima al
Passetto (1537) e la seconda a S.Alberto (1504).
Le immissioni in Po di Primaro dei tre
torrenti appenninici, nonché quella del Reno sopra Ferrara (1523-26), furono
considerate causa del rapido interrimento del fiume e dei disastri che ne
derivarono.
Ciò consigliò, ad inizio ‘600, il ritorno
alla situazione preesistente e lo studio di nuove soluzioni idrauliche che prevedessero
nuovi punti di sbocco agli stessi torrenti.
Così nel 1626 il Santerno, con una lunga diversione da Giovecca al
Passetto, fu portato a sboccare in prossimità della prima foce del Senio.
L’anno dopo quest’ultimo fu portato ad una nuova foce di fronte ad Humana
(Anita), mentre il Lamone fu condotto una prima volta direttamente al mare, nell’alveo
poi utilizzato, nel XX secolo, per il canale di destra-Reno.
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Tavola 05 - Orma della 1° Foce del
Santerno in Po Vecchio alla Bastia (1460) e della sua deviazione verso la 2°
foce al Passetto (1626) (tratto Giovecca - Voltana). Sopra quest’ultima si
osserva l’attuale corso del fiume Santerno verso la sua 3° foce in Po Nuovo
(Reno) alla Chiavica di Legno di Filo (1782) (tratto Passogatto - Villa
Pianta)
Tavola 06 - Orma
del corso del Santerno verso la sua 2° foce al Passetto (1626) (tratto
Voltana – Passetto). Sopra quest’ultima l’attuale corso verso la 3° foce in
Po Nuovo (Reno) alla Chiavica di Legno di Filo (1782) (tratto Villa Pianta-
Chiavica di Legno)
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Tavola 07 – Orme
delle Foci del Senio (1537 e 1625)
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Tavola 08 - Orma
Foce del Lamone a Sant’Alberto (1504)
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In quel primo ‘600 si era anche ormai
compreso quanto fosse divenuto necessario il raddrizzamento del corso del Po
di Primaro nei tratti più tortuosi onde migliorarne la scorrevolezza e
diminuirne la pericolosità.
La prima delle grandi opere a venire
realizzata, fu il Taglio Caetano sopra Sant’Alberto, eseguito nel 1606. Il
nuovo corso, di fatto, ricollocò il paese rivierasco da nord a sud del fiume
e l’abitato ne uscì unito, compatto e totalmente nell’orbita ravennate.
La Tavola 09 permette di osservare la
tortuosità del vecchio corso del fiume in corrispondenza di S.Alberto, e la
striscia di terra, fra Po Vecchio e Po Nuovo che, fino ad inizio ‘600, fu parte
della Riviera di Filo.
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Tavola 09 - Il
Taglio Caetano a Sant’Alberto (1606)
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Un secolo e mezzo dopo, nella seconda
metà del Settecento, decisa l’immissione del Reno nel Po di Primaro a
Traghetto, furono realizzati altri tre drizzagni nel tratto di fiume fra
Argenta e l’attuale Anita (Tavole 10-11-12).
In pratica, il
letto del Po di Primaro (Po Vecchio) da Argenta a Mandriole, fra inizio ‘600
e fine ‘700, con esclusione dei due tratti Confina di San Biagio / Bastia e Passetto / Madonna Boschi, fu completamente raddrizzato e rifatto
in zone non interrite (Po Nuovo).
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Rappresentazione
grafica dei tre drizzagni (F.L. Bertoldi, 1785)
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Tavola 10 Drizzagno
di Argenta (1774)
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Tavola 11
Drizzagno di
Longastrino (1782)
(dalla Bastia
al Passetto)
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Tavola 12
Drizzagno di
Humana (poi Anita)(1780)
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Come sappiamo le soluzioni
idrauliche di Età Moderna e le rettificazioni apportate al corso del Po, hanno finito
per determinare un cambio di denominazione geografica per le nostre acque
fluviali. Per tutto il XVIII e XIX sec. si distinsero vecchio e nuovo corso con
le denominazioni «Po Vecchio» e «Po Nuovo»; nella cartografia del XX sec.
cominciò poi ad affermarsi la nuova denominazione di Reno, spesso affiancata a quella, storica, di Po di Primaro, come ancora riscontriamo nella qui riportata Cartografia
Geologica.
Il grande fiume, tuttavia, nei
nostri cuori e nei nostri detti è ancora, e forse sarà sempre, «Po», nome
radicato nelle menti e tramandato dagli avi, nome amico, compagno e allo stesso
tempo nemico, nome che tuttora resiste e vive nella nostra parlata, al punto
che «Reno», in dialetto non è mai stato accolto o tradotto, anzi. Personalmente,
ma la cosa credo di condividerla largamente coi miei paesani: pur con tutto il
rispetto per le carte, le acque e la geografia, al solo tentativo di chiamarlo Rèñ, mi si inceppano lingua e budella,
o, per dirla alla maniera del buon Olindo Guerrini (Preludi ai Sonetti): l’è pröpi òna ad cal parôl ch’agli um liga i
dent… (a.v.)
(2 – fine)